Gli Stati Uniti tornano a spendere per la Groenlandia. No, Donald Trump non è finalmente riuscito a comprare l’isola più grande del mondo, come desiderava fare l’estate scorsa. Però l’effetto è simile e potrebbe comunque andare a finire allo stesso modo, con l’isola più grande del mondo che diventa la 51esima stella nella bandiera stars and stripes. Solo molto più tardi di quanto Trump sperasse. Ma andiamo per gradi.
Gli Stati Uniti puntano Nuuk
Il Dipartimento di Stato ha annunciato la riapertura del consolato americano nella capitale groenlandese, Nuuk, che era stato chiuso nel 1953, e 12,1 milioni di dollari di aiuti in progetti energetici, minerari, educativi e turistici. Non cifre enormi, normalmente non sarebbe una notizia sensazionale.
Però la notizia non è stata presa bene in Danimarca, al cui regno appartiene l’isola più grande del mondo. Alcuni politici, sia di destra che di sinistra, hanno accusato Washington di provare a mettere il dito tra la Groenlandia e Copenhagen. Non è un timore campato in aria. Lassù, gli Stati Uniti vantano già un’influenza fortissima. Non potrebbero fare altrimenti.
La Groenlandia è il cappello che protegge il Nordamerica da nord-est, ciò che rende compiuto il continente della superpotenza.
Se la controllasse un attore non innocuo come la Danimarca, Washington non dormirebbe la notte. Dovrebbe guardarsi dalle manovre dei propri nemici. Specie perché da lì si potrebbero interrompere le rotte tra America ed Europa, il cordone ombelicale più prezioso che esista al mondo – due guerre mondiali stanno lì a dimostrarlo.
Dall’antichità al futuro: Thule
Proprio la seconda lo dimostra: quando i nazisti occuparono la Danimarca, gli statunitensi fecero altrettanto con la Groenlandia per impedire che i tedeschi vi si insediassero. Poi vi costruirono basi aeree che in seguito chiusero tutte. A parte una, dal nome evocativo: Thule, come l’ultima postazione del mondo secondo gli antichi, che resta l’avamposto militare americano più a settentrione di tutti.
Peraltro è un’installazione estremamente preziosa perché serve come preallarme in caso di lancio di missili nucleari dall’Eurasia e come hub del sistema che permette ai militari americani di comunicare fra loro in tutto il mondo.
Gli Usa gestiscono altre tre strutture usate sia dalle Forze armate che dalla comunità scientifica, che ha una cinquantina di programmi di ricerca per i quali stanzia 15 milioni l’anno. Sembra poca roba, soprattutto pensata spalmata su un territorio enorme, più vasto di Spagna, Francia, Italia, Germania e Polonia messe assieme. Ma non lo è. Perché alle latitudini polari anche la minima presenza, persino quella dei ricercatori, non è neutrale ma un avamposto della sovranità.
Di fatto, dalla guerra fredda in poi gli Stati Uniti hanno semplicemente concesso ai danesi di continuare ad amministrare l’isola e la sua sparuta e depressa popolazione (56 mila abitanti). Però qualcosa è successo nel frattempo. La competizione con Russia e Cina si è fatta più intensa, è sfociata nell’Artico, non perché questo possegga chissà quali ricchezze da conquistare ma banalmente perché è il lago che separa i tre massimi contendenti del globo.
Pechino ha bussato alle porte dei groenlandesi. Nel 2016 ha provato ad acquistare una base navale dismessa e nel 2018 a ottenere l’appalto per costruire quattro aeroporti. Washington ha subito reagito rabbiosa. Dal Pentagono hanno alzato il telefono e detto alle controparti danesi: non deve succedere. Copenhagen in entrambi i casi ha messo il veto e i cinesi hanno fatto retromarcia. Però della sua gestione gli americani non erano affatto soddisfatti. A che serve lasciarle la Groenlandia, pensavano, quando poi tocca a noi fare il lavoro sporco? E nel marasma che è il governo degli Stati Uniti salta fuori Trump: compriamola.
Un Paese in vendita
Non è un piano concreto, è un gesto estemporaneo. Ma è perfettamente in linea con l’approccio statunitense a quell’isola. A provare a fare lo stesso fu nella seconda metà dell’Ottocento un geniale stratega, William Seward. Lo stesso segretario di Stato che acquistò per due soldi l’Alaska dallo zar di Russia, venendo deriso, e che fu ugualmente deriso quando al Congresso propose di fare altrettanto con la Groenlandia.
Poi ci provò il presidente Truman nel 1946, per 100 milioni di dollari, venendo respinto dai danesi stavolta. I quali si rendevano perfettamente conto di un giochino strategico molto vantaggioso dal loro punto di vista: lasciare agli americani di far quel che volevano nell’isola (cosa che di fatto già avveniva e sarebbe avvenuta comunque) in cambio di uno sconto sulle spese da pagare per la NATO. Molto vantaggioso anche perché in questo modo Copenhagen rivendica non solo un ruolo nelle decisioni sull’Artico che altrimenti non avrebbe, ma pure di possedere nientemeno che il Polo Nord, contrastando simili ambizioni da parte della Russia.
Ovviamente l’offerta-provocazione di Trump non va in porto. Si rischia la crisi diplomatica. Si cerca un compromesso e quel compromesso di fatto è la decisione annunciata qualche giorno fa sul consolato e sugli aiuti. Ma ai danesi è rimasto il dubbio. Fondatissimo, perché se agli Stati Uniti accollarsi le spese dell’isola comprandosela non conviene, lo stesso risultato lo si può raggiungere con una Groenlandia indipendente.
Un futuro tutto da scrivere
Dal 2009 la comunità inuit si autogoverna, con le sole decisioni di politica estera e di sicurezza di competenza danese.
Però un referendum per diventare un vero e proprio Stato è sempre nell’aria. I groenlandesi non sono mai stati integrati nel popolo danese. Washington inoltre sostiene attivamente la ricerca groenlandese di una soggettività – evidente per esempio ad Arctic Circle in Islanda, in un’edizione a forte presenza americana, con molti eventi a tema Groenlandia e in cui gli organizzatori parlavano apertamente dell’affermazione di una voce indipendente. Infine, anche i 12,1 milioni appena annunciati saranno erogati direttamente a Nuuk, senza passare per le autorità danesi.
Se si staccasse del tutto dalla Danimarca, l’isola non sarebbe davvero autonoma nell’impostare la propria strategia. Sarebbe comunque una sorta di protettorato statunitense. Washington non le lascerebbe aprire agli investimenti cinesi alla leggera. In campo militare, tutti i politici inuit concordano: aderiremmo alla Nato. Senza contare le promettenti riserve di terre rare, metalli fondamentali per l’industria tecnologica per i quali gli Stati Uniti dipendono dalla Cina e per sviluppare i quali Washington ha firmato un’intesa a fine 2019 con le autorità groenlandesi.
Washington nel Mare di Barents
Gli Stati Uniti hanno inviato navi da guerra nel Mare di Barents per la prima volta dalla metà degli anni Ottanta. Perché conta? Perché la missione dei tre cacciatorpediniere statunitensi, accompagnata da una fregata britannica, non è ovviamente di combattimento. Ufficialmente, serve a prendere confidenza con le tempestose acque artiche, con le quali la U.S. Navy ha scarsissima dimestichezza.
In termini strategici, però, serve ad avanzare la linea del contenimento della Russia fin sulle porte di casa sua, la fortezza militare della penisola di Kola. Uno sviluppo previsto da Limes e che alza ulteriormente l’asticella della militarizzazione del Basso Artico.
Di fatto, la Marina americana ha recuperato un concetto operativo di fine Guerra Fredda, quando sotto Ronald Reagan si decise per una postura più offensiva, spostandosi dalla linea Groenlandia-Islanda-Regno Unito appunto al Mare di Barents. Tale ritorno di fiamma è coerente con l’idea imperante nelle burocrazie a stelle e strisce di accrescere la pressione su Mosca lungo la nuova cortina di ferro. Di cui l’Artico non è che un prolungamento.
Importante che a questa missione non partecipino navi della Norvegia: Oslo ha ottenuto di starne fuori per non provocare eccessivamente i russi, per non essere percepita come irrispettosa delle loro linee rosse. Ciò non vuol dire che i norvegesi siano neutrali, perché guardano con favore a ogni aumento delle garanzie americane come questo. Ma che non vogliono antagonizzare il potente vicino.
L’America non annetterà la Groenlandia a meno che non sia costretta. Ma non è affatto detto che per respingere le sirene cinesi non incentiverà indirettamente l’indipendentismo locale. Probabilmente a cogliere i frutti di questa tendenza ineluttabile non sarà Trump. Ma l’orologio della geopolitica corrente più lento di quello della Casa Bianca. Eppure, più inesorabile.
Federico Petroni
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