Dopo il G20 di Roma, va in scena la COP26 di Glasgow. Ultima chiamata per il clima mondiale?
Un ultimo giro di danze
Greta Thunberg l’aveva detto chiaramente: “Questi summit sono spesso solo un bla bla bla privo di sostanza”. E non si può certamente dare torto alla giovane attivista-star svedese, visto che dalla prima COP – quasi tre decenni fa – molto è stato detto, poco è stato fatto.
Le intenzioni e le firme degli impegni formali si sono moltiplicate, così come le conferenze, i meeting, gli incontri bilaterali e gli appuntamenti B2B. “Sustainability” è senza dubbio la parola che più di ogni altra caratterizza il nostro tempo, ben più di “pandemia”. E allora perché non vediamo la svolta?
A Glasgow si incontrano nuovamente i “Grandi” della Terra, insieme ai rappresentanti delle popolazioni indigene che più di altri subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Ci sono i lobbisti e le associazioni di categoria, gli studenti e le regioni, le aziende e gli scienziati. Eppure sembra di vedere qualcosa di già visto.
L’ottimismo di Roma
Il Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, è riuscito a ospitare un summit globale portando a casa un risultando inatteso. Un bel segnale, visto che tutti i leader delle 20 principali economie mondiali hanno fatto intendere di essere favorevoli a una politica comune per stringere le maglie delle emissioni globali.
Il timbro finale sul G20 di Roma riporta uno stanziamento di 100 miliardi di dollari per i Paesi in via di Sviluppo perché possano affrontare con decisione la sfida della transizione ecologica. E alcuni altri impegni formali (Qui il testo completo):
Responding to the call of the scientific community, noting with concern the recent reports of the IPCC and mindful of our leadership role, we commit to tackle the critical and urgent threat of climate change and to work collectively to achieve a successful UNFCCC COP26 in Glasgow. To this end, we reaffirm our commitment to the full and effective implementation of the UNFCCC and of the Paris Agreement, taking action across mitigation, adaptation and finance during this critical decade, on the basis of the best available scientific knowledge, reflecting the principle of common but differentiated responsibilities and respective capabilities, in light of different national circumstances. We remain committed to the Paris Agreement goal to hold the global average temperature increase well below 2°C and to pursue efforts to limit it to 1.5°C above pre-industrial levels, also as a means to enable the achievement of the 2030 Agenda.
We recognize that the impacts of climate change at 1.5°C are much lower than at 2°C. Keeping 1.5°C within reach will require meaningful and effective actions and commitment by all countries, taking into account different approaches, through the development of clear national pathways that align long-term ambition with short- and medium-term goals, and with international cooperation and support, including finance and technology, sustainable and responsible consumption and production as critical enablers, in the context of sustainable development. We look forward to a successful COP26.
I dubbi di Glasgow
Boris Johnson, il premier britannico, aveva affermato nei giorni scorsi che la COP26 non avrebbe potuto fallire. Pena, il crollo verticale di tutti gli accordi sul clima, e un disastro ambientale generalizzato. Non è certamente la prima volta che leggiamo appelli da fine-del-mondo, e spesso la questione ambientale e climatica viene riportata con questi toni. Salvo poi essere subordinata alle esigenze economiche più stringenti.
Ma la COP26 ha forse un obiettivo più sottile e importante. Uscire dal “guscio”, facendo emergere una visione ambientale pragmatica. Scevra, cioè, della visione totalizzante dell’ambientalismo tout-court, ma anche distante dal fastidioso green-washing delle grandi corporations. Insomma, serve pratica.
Le prime due giornate della conferenza hanno finora evidenziato le differenze, più che le affinità. Se tutti gli attori in campo concordano sull’abbattimento delle emissioni, il punto a favore dell’ambiente più importante è forse stato segnato dalla decisione comune di piantare oltre 1.000 miliardi di alberi nel mondo, entro il 2030.
Una decisione che potrebbe aiutare enormemente la cattura della CO2 a livello planetario. Ma illudersi che la questione del clima dipenda solo da questo, sarebbe davvero un segnale preoccupante. Nell’Artico vediamo ad esempio come ogni aspetto sia da tenere in considerazione.
Un maggiore riscaldamento significa un cambiamento delle abitudini e degli impieghi della popolazione. Significa che occorre ridisegnare anche gli spazi, le città, i servizi essenziali. Occorre ripensare nella sua globalità, la linea che intendiamo perseguire in futuro. E se India, Cina e Russia decidono di partecipare all’abbattimento delle emissioni, sappiamo anche che non basteranno 50 anni per una reale inversione di tendenza.
Ma stiamo considerando tutto ceteris paribus. Come se nulla, in parole povere, cambierà. Speriamo quindi che la geopolitica attuale non ci porti a uno scontro frontale fra super potenze nei prossimi decenni, che le crisi regionali in atto possano risolversi rapidamente, che tutto vada per il meglio. Perché se invece a scaldarsi saranno gli animi, la situazione ambientale potrebbe scivolare rapidamente indietro, nella lista delle cose da fare.
Leonardo Parigi
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