Trivellazioni in Alaska, ci risiamo. L’Amministrazione Trump sta lavorando in queste settimane per consentire la perforazione esplorativa per bacini di petrolio e gas naturale in una parte dell’Arctic National Wildlife Refuge, area protetta per decenni per la sua grande biodiversità faunistica.
Il Bureau of Land Management (BLM) andrà infatti a offrire contratti di locazione sull’intera area costiera (oltre 1,6 milioni di acri – equivalenti a quasi 6,500 chilometri quadrati). La zona, che comprende luoghi in cui gli orsi polari hanno costruito le loro tane, e dove vivono caribù e molti altri animali protetti, potrebbe dunque veder cancellata la propria protezione legale. Le stesse popolazioni indigene, che vivono ancora di caccia e pesca di sussistenza, subirebbero danni irreparabili per il proprio habitat.
La maggioranza democratica ha approvato una legge, alla House of Representatives, che tutelerebbe l’intera area costiera, ma il Senato, controllato dai Repubblicani, molto probabilmente non approverà il disegno di legge. Adam Kolton, Direttore Esecutivo della Alaska Wilderness League, ha affermato: «Con sorpresa di nessuno, l’Amministrazione ha scelto l’alternativa più aggressiva […] Con un occhio di riguardo allo sviluppo dell’intera fragile pianura costiera, l’amministrazione ha scavalcato la scienza, facendo tacere il dissenso e respingendo intere comunità indigene».
Ecco alcune delle ragioni faunistiche del perché la Alaska Wilderness League è contraria alle trivellazioni:
Reasons not to drill in the Arctic Refuge:
Donald Trump non ha mai fatto mistero di voler utilizzare tutte le risorse naturali disponibili su suolo o sottosuolo americano, e anche la sua campagna elettorale fu basata sull’idea di un’autarchia energetica che avrebbe disimpegnato gli Stati Uniti da più complessi teatri di guerra.
Ma secondo i detrattori della Alaska Wilderness League:
Si sta precipitando con l’attuazione di piani per la perforazione distruttiva di petrolio e gas, ignorando gli impatti biologici, culturali e climatici su un Artico in rapido riscaldamento. Questa spinta è il risultato del Congresso che ha approvato una controversa legge fiscale nel 2017 che impone lo sviluppo nella pianura costiera, nelle terre sacre del popolo di Gwich’in e nell’habitat vitale per caribù, orsi polari e uccelli migratori.
Bureau of Land Management (BLM) ha rilasciato la scorsa settimana la sua ultima dichiarazione sull’impatto ambientale, dichiarando che i primi contratti vedranno la luce entro la fine del 2019. L’ufficio stima che il petrolio estratto dall’area creerebbe un piccolo impatto in fatto di ambiente, ma sono molte le voci contrarie. All’interno del documento ufficiale del BLM si troverebbe addirittura un’affermazione per la quale il rapido riscaldamento globale sarebbe fondamentalmente ciclico, eliminando dunque dalle cause l’uomo e l’inquinamento. Ma lo stesso documento smentirebbe poi sé stesso, sottolineando in altre parti che i carburanti fossili sono sicuramente colpevoli della situazione attuale.
Un giudice federale dell’Alaska aveva rovesciato, lo scorso 30 marzo, il tentativo del presidente americano di aprire vaste aree nell’Oceano Artico e nell’Atlantico a nuove piattaforme per l’estrazione di idrocarburi. La decisione, emessa dal giudice distrettuale Sharon Gleason, lasciava intatta la decisione del Presidente Barack Obama, che aveva istituito un blocco a questo tipo di investimenti nel Mar di Čukči, nel Mare di Beaufort e in un’ampia fascia di Oceano Atlantico.
Il tentativo di Washington di allargare a quest’area il potenziale investimento delle aziende petrolifere (e non solo) viene perciò considerata illegale, in contrapposizione con la Legge Outer Continental Shelf Lands.
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