Da avamposto strategico a terreno di rivalità internazionali, la Groenlandia è al centro degli interessi degli Stati Uniti da quasi un secolo.
A pochi giorni dalla vittoria alle elezioni americane, il presidente eletto Donald Trump ha rinnovato il suo interesse per la Groenlandia come asset strategico per “ragioni di sicurezza nazionale”, una volontà che aveva già espresso nel 2019. In risposta, il Primo ministro groenlandese Múte Egede, pur sottolineando l’apertura al dialogo con i Paesi vicini, ha giustamente ricordato che “la Groenlandia è dei Groenlandesi e non sarà mai in vendita”.
È evidente che quando Trump parla della Groenlandia, sembra considerarla come un appezzamento di terra di cui impossessarsi con un’operazione commerciale più che come un Paese autonomo.
Sebbene l’idea di acquistare la Groenlandia sembri “assurda” – così era stata definita dalla premier danese Mette Frederiksen nel 2019 – non è la prima volta che una simile proposta viene avanzata da un Presidente americano. Nel 1946, all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, Harry Truman offrì alla Danimarca 100 milioni di dollari in lingotti d’oro per l’acquisto del suo territorio. L’offerta di Truman arrivava da un periodo in cui gli Stati Uniti avevano di fatto esteso il proprio controllo sull’isola e guardava alle dinamiche di potere che avrebbero caratterizzato la Guerra fredda. Ma in che senso gli Stati Uniti avevano il controllo sulla Groenlandia?
Sul tetto di una vecchia casa nel porto di Narsaq, un villaggio sulla costa meridionale dell’isola, si può ancora leggere una scritta gialla che recita: “A-34”. Non è un caso isolato: in ogni paese della Groenlandia, infatti, c’è un edificio con un codice analogo. Queste scritte, risalenti agli inizi della Seconda guerra mondiale, indicavano ai piloti americani i punti su cui paracadutare i beni di sussistenza indirizzati agli abitanti groenlandesi.
Nell’aprile del 1940, dopo l’occupazione tedesca della Danimarca, i governatori danesi della Groenlandia, Eske Brune e Axel Svane, dichiararono l’isola temporaneamente indipendente dalla Danimarca onde evitare ingerenze tedesche. In collaborazione con Henrik Kauffmann, allora ambasciatore danese a Washington, instaurarono un dialogo con gli Stati Uniti affinché assicurassero rifornimenti – fondamentali per la Groenlandia, che già al tempo era pesantemente dipendente dalle importazioni danesi – e protezione da possibili invasioni tedesche. Il 9 aprile 1941 venne così siglato “l’Accordo sulla difesa della Groenlandia”, con cui l’isola diventava un protettorato de facto degli Stati Uniti. Washington otteneva in cambio il permesso di costruire alcune basi militari sul territorio, permesso che in origine doveva cessare al concludersi della minaccia tedesca, ma che fu poi prolungato fino ad oggi.
Gli Stati Uniti erano da tempo consapevoli dell’importanza strategica del territorio groenlandese. Già nel 1867, sotto la presidenza di Andrew Johnson, avevano acquistato l’Alaska dalla Russia: l’acquisizione della Groenlandia avrebbe completato una sorta di “barriera naturale” tra il territorio nordamericano e l’Europa. Inoltre, per la sua vicinanza geografica – la capitale, Nuuk, è in linea d’aria più vicina a New York che a Copenhagen – il governo americano considerava l’isola soggetta alla dottrina Monroe, ritenendo pertanto problematica qualunque possibile ingerenza straniera sull’isola.
Nel corso della Seconda guerra mondiale, il ruolo strategico dell’isola divenne sempre più evidente. In primo luogo, l’assenza di tecnologie satellitari rendeva fondamentale l’installazione di stazioni meteorologiche in Groenlandia per pianificare le operazioni militari. Proprio dalla base militare di Narsarsuaq, nel sud dell’isola, vennero ottenute previsioni fondamentali per la riuscita dello sbarco in Normandia.
Inoltre, la Groenlandia costituiva una perfetta base per i voli transatlantici, consentendo di fare rifornimento e curare i soldati feriti. Infine, già allora l’isola era nota per le sue eccezionali risorse minerarie. Nei pressi di un piccolo insediamento sulla costa sud-occidentale dell’isola, Ivigtut, si trovava l’unico giacimento noto e sfruttato al mondo di criolite: un metallo che, fuso con la bauxite, permetteva di ottenere alluminio di primissima qualità e a costi ridotti, cruciale per la costruzione di velivoli militari.
Dalla firma dell’accordo con Kauffmann, gli Stati Uniti non hanno mai davvero abbandonato l’isola. La storica della tecnologia Ruth Oldenziel descrive queste dinamiche come “Island techno-politics”, strategie di espansionismo imperialistico mascherate da cooperazione militare. Attraverso il cavallo di Troia delle basi, gli Stati Uniti ottennero un controllo di fatto sul territorio senza però compromettere la loro immagine di nazione anticoloniale.
Sebbene, come abbiamo detto, l’accordo iniziale prevedesse l’abbandono delle basi militari al concludersi della minaccia tedesca, il 27 aprile 1951 il governo danese dovette ratificare un nuovo accordo per la difesa della Groenlandia, questa volta in chiave antisovietica, accettando la costruzione e il mantenimento della nuova base di Thule. Una clausola, questa, posta come condizione per l’ingresso della Danimarca nella NATO.
In un’intervista del 1954, il governatore della Groenlandia Eske Brun osservò:
“se la Groenlandia oggi rimane danese, è in parte dovuto al fatto che era situata alla fine del mondo e la Danimarca era l’unico paese ad interessarsene. Oggi, la Groenlandia si trova proprio al centro del mondo; tuttavia, per come il mondo si sta comportando ora, questa circostanza sfortunatamente attira principalmente l’attenzione militare”.
A settant’anni di distanza, le parole di Brun risuonano fortemente attuali. Da avamposto strategico durante la Seconda guerra mondiale, a potenziale epicentro delle nuove sfide artiche, la Groenlandia rappresenta oggi un laboratorio di frizioni tra sovranità locale, interessi economici globali e rivalità internazionali. Nell’era della nuova corsa alle risorse minerarie green – di cui l’isola è ricchissima – e alle rotte artiche, il ruolo della Groenlandia si riposiziona nello scacchiere internazionale, attirando l’attenzione di compagnie estrattive internazionali e dei governi di tutto il mondo.
Un paio di anni fa, un’allevatrice di pecore, tra i tanti attivisti inuit contrari alla realizzazione di una miniera di terre rare nel sud dell’isola, mi disse che le compagnie minerarie sembrano ignorare l’esistenza di chi vive in quelle terre, trattandole come se fossero disabitate. La proposta di Trump, più rivolta alla Danimarca che alla Groenlandia, tradisce la medesima visione coloniale, anche quando, come in un suo recente post sul suo social Truth, afferma di volerla “proteggere e custodire da un mondo esterno molto feroce” e di voler “rendere la Groenlandia grande di nuovo”.
Nel frattempo, in risposta alle aspirazioni di Trump, la corona danese ha modificato lo stemma reale, ponendo in maggior evidenza i simboli groenlandesi e sottolineando così il proprio possesso sull’isola. Ma la Groenlandia non è solo un’opportunità geopolitica, è la casa di un popolo. È tempo che le potenze mondiali ascoltino le istanze dei Groenlandesi e smettano di trattare la loro terra come una mera frontiera che attende di essere sfruttata.
Enrico Gianoli
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