12 luglio 1899. Da Arcangelo, porto russo affacciato sul Mar Bianco, la nave Stella Polare salpò in direzione nord. L’obiettivo era di raggiungere un desolato arcipelago chiamato “Terra di Francesco Giuseppe”, scoperto solo sedici anni prima da due esploratori polari austriaci [1], una delle terre più a Nord del mondo.
“Là… I tre alberi al cielo,
come cipressi da tomba,
puntano. Un mare di gelo
la carena serra, e romba.
Come un addio di lontani,
tra le sartie nella notte ulula il vento.
Mandano un lungo lamento
le mute dei cani.
Palpita in alto un’aurora
verde che sfuma e si dora:
sale e fiammeggia; discende,
si rifugia nel mistero.”Giovanni Pascoli – “Al duca degli Abruzzi e ai suoi compagni” (1906)
La spedizione, sotto l’egida della Società Geografica Italiana e del Club Alpino Italiano, era guidata da Luigi Amedeo di Savoia, il Duca degli Abruzzi, quel principe esploratore di casa Savoia già protagonista di un’impresa straordinaria in Alaska, con la prima ascesa assoluta e tutta italiana del Monte Sant’Elia” (5489 m) un biennio prima.
L’equipaggio era composto da 9 norvegesi e 11 italiani [2]. Il programma prevedeva che una volta giunti in una delle isole dell’arcipelago, quella del Principe Rodolfo, la nave svernasse in una delle sue baie e si provvedesse all’organizzazione della seconda parte della spedizione: tre gruppi con le slitte avrebbero abbandonato l’isola e si sarebbero diretti sul pack [3], cercando di arrivare il più a settentrione possibile.
Il primo gruppo sarebbe avanzato da capo Fligely (il punto più a Nord dell’isola) sino all’85° parallelo, con viveri per alimentare tutti i compagni nelle restanti slitte durante il periodo e per il proprio sostentamento al ritorno.
Un secondo gruppo avrebbe proceduto sino all’88° parallelo sempre con provviste per il resto e per se stessi, infine il terzo gruppo dall’88° avrebbe tentato di conquistare il Polo Nord [4]. Il corso degli eventi però, come nella stragrande maggioranza delle spedizioni, non fu quello sperato.
Prima di addentrarci nel vivo dell’esplorazione, è opportuno rendersi conto di cosa volesse dire nel 1899 organizzare un viaggio con siffatte ambizioni di scoperta. Poche erano state, fino ad allora, le spedizioni aventi il Polo come solo obiettivo, questo perché le zone artiche erano una frontiera su cui lo sguardo si era posato solo di recente.
La scoperta e la mappatura dei cinque continenti, sebbene mancassero da svelare molteplici porzioni del globo (specie nell’entroterra amazzonico, nell’Africa profonda e nelle grandi catene montuose dell’Asia), condusse l’epopea esplorativa al capitolo dei poli, una delle pagine più avvincenti della storia delle scoperte geografiche [5].
Tra le esplorazioni artiche che determinarono le conoscenze del tempo, cito quelle che lo stesso Duca degli Abruzzi elencò nel suo diario di viaggio. Abbiamo il comandante Parry, che lasciò le Svalbard nel 1827 e partì sull’Hecla per giungere a un massimo di 82° 45’, vinto dalla deriva del ghiaccio e costretto al ritorno.
Poi ci fu la spedizione dell’oceanografo Nares nel 1875, che si spinse fino agli 83° 20’ raggiunti dal comandante A. H. Markham, prima di fare marcia indietro per l’esasperazione dell’equipaggio e l’ombra dello scorbuto a bordo; a 83° 24’ giunse invece il capitano Lockwood, superando il precedente partendo da una latitudine inferiore; e infine abbiamo la spedizione di Nansen, su cui è opportuno soffermarsi prima di tornare alla Stella Polare.
Nansen pensò di abbandonare la procedura solitamente seguita, vale a dire spingersi con una nave in una terra molto a Nord e proseguire con le slitte in primavera. Egli provò a servirsi della gabbia in cui il pack avrebbe incastrato la nave, convinto che le correnti da levante a ponente avrebbero potuto trascinare la sua nave in prossimità dell’obiettivo.
Riuscì a toccare l’84° parallelo, dove essendosi reso conto che la deriva non avrebbe mai fatto passare l’imbarcazione per il polo si servì dei cani per spingersi a 86° 13’, a nord come nessun altro prima di lui. Fece ritorno il 9 agosto 1895 sull’Isola Adelaide, nella Terra di Francesco Giuseppe. Ed è tornando in questo arcipelago che, dopo aver vissuto rapidamente i momenti salienti dell’esplorazione artica fino ad allora, ci ricongiungiamo al Duca e ai suoi compagni.
Era il 10 agosto 1899. La Stella Polare attraccò nella Baia di Teplitz, nella costa occidentale dell’isola del Principe Rodolfo. Qui l’intero equipaggio avrebbe trascorso la notte artica dei mesi seguenti fino al giorno della partenza, che fallì nella data stabilita a febbraio e dovette essere posticipata alla prima metà di marzo.
Le giornate invernali trascorrevano all’insegna dell’allenamento e del lavoro. La pressione del pack aveva imprigionato la nave, costringendo i membri della spedizione ad allestire un campo a terra. Il pericolo principale, oltre al freddo, erano gli orsi polari, contro i quali si utilizzavano le armi portate proprio per ovviare a quest’unica minaccia.
Il clima era piuttosto variabile, si passava da nottate di bufere impetuose alle ancor più rigide di cielo sereno, durante le quali l’aurora boreale destava lo stupore di quegli uomini lontani come pochi altri nella storia dell’umanità. Una sera lo spettacolo fu così intenso da richiamare l’attenzione di tutti,
«Quasi tutta la volta celeste era illuminata da cortine ondeggianti in tutti i sensi, alcune delle quali parevano a poca distanza dall’osservatore, mentre altre sembravano muoversi a considerevole altezza. A greco, dietro la montagna ove sempre aveva origine l’aurora, il cielo pareva infocato come nel divampare di un incendio colossale». Luigi Amedeo di Savoia, La stella polare nel Mare Artico (1899-1900), 1903
Poche sere prima, in occasione del compleanno della Regina, il Duca espresse lucidamente lo stato d’animo della squadra, provata dagli sforzi e consapevole dell’importanza della posta in gioco:
«Ma se le nostre condizioni non ci consentivano un grande divertimento, il pensiero che eravamo i primi Italiani a festeggiare in una latitudine così alta l’anniversario della nascita della nostra Regina, coi ricordi della patria lontana, che in quella occasione si affollavano più vivaci alle nostre menti, bastava per infondere in tutti un’insolita allegria». Luigi Amedeo di Savoia, La stella polare nel Mare Artico (1899-1900), 1903
Il 21 gennaio si concludeva la notte artica e, meno di due mesi dopo, l’11 di marzo del 1900 partiva la spedizione con le slitte. Il Duca aveva ceduto il comando a Umberto Cagni, a causa di un congelamento che gli impedì di prender parte alla progressione con le slitte. Iniziò allora l’attesa snervante dei gruppi, nella speranza che le scadenze di ritorno previste venissero rispettate da tutti senza ostacoli particolari.
Al 10 di aprile, data di ritorno stabilita per la prima slitta, del gruppo non v’era traccia. Il Duca camminava nervosamente vicino alle tende, sperando che il ritardo fosse da imputare al forte vento dei giorni passati. Otto giorni dopo, però, alle sei del mattino giunse Cardenti di ritorno con il secondo gruppo: allora fu ufficiale, il primo era perduto.
Il 22 aprile, al mattino, tre norvegesi partirono alla ricerca dei dispersi (tra cui figuravano anche due guide valdostane) con provviste per quasi un mese, a bordo d’un battello di tela pieghevole. L’ordine del Duca era di procedere in direzione ponente mezzogiorno e di tornare indietro dopo dodici giorni, nell’eventualità d’aver cercato invano.
Alle sette e mezza del 10 maggio, i tre marinai tornavano alla baia senza notizie. Nel frattempo, trascorso un mese, subentrò anche il ritardo del terzo gruppo comandato da Cagni, quello che avrebbe dovuto tentare la via del polo. Anche in questo caso il Duca pensò ad una spedizione di ricerca, ma con grande sorpresa il 23 giugno 1900 dalla baia si scorse una slitta in lontananza. Il gruppo era sopravvissuto, raggiungendo la latitudine di 86° 34’.
Mancarono il Polo dunque, ma vi si avvicinarono come mai nessuno nella storia. Il 16 agosto del 1900 gli “Hurrah” dei membri della spedizione, gridati a gran voce abbandonando la Terra di Francesco Giuseppe, lasciavano nell’arcipelago il più nitido ricordo dei compagni perduti:
«I nostri sguardi si volgevano a settentrione, al di là della distesa d’acque libere, sui ghiacci lontani che dovevano pur troppo racchiudere le tombe del bravo Querini, del volenteroso Stokken e del fedele Ollier; tombe che mai ci sarà dato di conoscere, perché il mare Artico è geloso dei suoi segreti» (LUIGI AMEDEO DI SAVOIA, La stella polare nel Mare Artico (1899-1900), 1903)
[1] Carl Weyprecht e Julius Payer scoprirono l’arcipelago in una spedizione di due anni tra il 1872 e il 1874. Parte dell’equipaggio era composta da marinai dell’Adriatico.
[2] Oltre che dal Duca, l’equipaggio italiano era composto dal tenente Umberto Cagni, dal cuoco Gino Gini, dal secondo nostromo Giacomo Cardenti, dal marinaio Simone Canepa, dalle quattro guide valdostane Giuseppe Petigax, Alessio Fenouillet, Cipriano Savoie, Felice Ollier, e dal tenente di Vascello Francesco Querini.
[3] Con il termine pack si fa riferimento al ghiaccio marino delle latitudini artiche ed antartiche, soggetto alla deriva a causa delle correnti.
[4] Di Savoia, Luigi Amedeo, Umberto Cagni, and Pietro Achille Cavalli Molinelli. La” Stella polare” nel mare Artico, 1899-1900. U. Hoepli, 1903.
[5] Le ricerche del passaggio a nord ovest e del passaggio a nord est, volte rispettivamente alla ricerca di una rotta nord americana e siberiana in direzione in direzione dell’estremo oriente, avevano già permesso ad un folto numero di spedizioni un primo assaggio delle difficoltà di navigazione nei mari del nord.
Filiberto Ciaglia
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