Intervista a Silvia Cosimini, una delle più note traduttrici contemporanee di lingua islandese, presente al Nordic Festival “I Boreali” di Iperborea.
Nata a Montecatini Terme nel 1966, si laurea in Lingue a Firenze con una tesi in Filologia Germanica; parte poi per Reykjavík, dove consegue una laurea in Lingua e cultura islandese. Questa è Silvia Cosimini, una delle più note traduttrici contemporanee grazie al suo prezioso lavoro sui testi islandesi.
La sua dedizione la porta a ottenere diversi riconoscimenti, tra cui il “Premio Nazionale per la Traduzione” dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sebbene tradurre e promuovere la cultura islandese sia la sua attività principale, Silvia Cosimini è anche docente all’Università di Milano.
Ha definito il suo lavoro di traduzione e promozione della cultura islandese come una “missione”. I premi che ha ricevuto indicano la dedizione che ha messo in questo lavoro. Tuttavia, potrebbe spiegarci meglio il motivo di questa vocazione?
“Quando ho cominciato l’università, avevo già studiato un po’ di letteratura in francese o in inglese, ma nessuno mi aveva mai parlato dell’Islanda o dell’islandese. Ho cominciato i miei studi del tutto ignara che ci fosse un mondo di letteratura “altra”, che sfuggiva un po’ al nostro controllo, una letteratura sconosciuta. Quando ho fatto il primo corso di filologia germanica, mi si è aperto questo mondo di letteratura nordica, questi romanzi medievali anonimi di cui proprio non avevo nessuna conoscenza e mi sono detta “ma com’è possibile che per questa cosa in Italia non ci sia spazio?”.
Nel panorama della letteratura europea – perché io sono nata in un periodo di costruzione dell’Europa, io sono un’europeista – mi sembrava così strano che una letteratura così ricca, così viva, alle origini nella civiltà, fosse del tutto tagliata fuori. Per cui, quando poi mi sono laureata, ho deciso di andare in Islanda e poi sono passata a studiare letteratura contemporanea. In questo sta la mia missione, quella di poter proprio aprire un mondo di letteratura anche ai lettori italiani”.
È stata appena pubblicata una nuova raccolta di racconti da Lei tradotti, “L’islandese che sapeva raccontare storie“. Come scritto in prefazione, si tratta di testi scritti a corollario delle più conosciute Saghe dei re di Norvegia. Come mai ha deciso di estrapolare e tradurre proprio questi racconti? Cosa li rende così importanti?
“Questo è un progetto che io avevo nel cassetto da credo trent’anni, penso sia stata la prima cosa che ho proposto a Iperborea nel ‘97, perché quando ero all’università di Reykjavik mi avevano fatto studiare uno di questi racconti e l’avevo trovato straordinario. Dava un’alternativa molto più leggibile delle saghe islandesi, che non sono così facili da leggere per chi non è uno studioso, e soprattutto si inserivano perfettamente nella tradizione della novella medievale.
Tutte queste novelle, come quelle di Boccaccio, e poi c’è un sacco di materiale che rimane in ombra, anche in Islanda, dal momento che si trova in bilico tra le Saghe dei re e le Saghe degli islandesi. Queste novelle erano rimaste in un crepuscolo e io mi sono detta “ma guarda qua che bei racconti”. A me tra l’altro piace tantissimo la forma del racconto, essendo più densa e dal momento che molto spesso su questi testi si lavora più di fino: non sono racconti che si slabbrano perché li devi tenere in una certa dimensione narrativa, c’è più ordine. Secondo me queste sono storie create apposta per essere lette“.
L’islandese antico è una lingua poco nota in Italia e comporta spesso difficoltà nella resa straniera di alcuni suoi termini. Può dirci meglio del lavoro che sta dietro alla sua traduzione? Che difficoltà ha incontrato nella traduzione del suo ultimo lavoro?
“La difficoltà maggiore sta nel fatto che non c’è un autore a cui puoi chiedere, perché quando lavoro con un autore contemporaneo so che posso sempre chiedere se non capisco quale fosse la sua intenzione. In questo caso la difficoltà più grossa è che non si può fare e che, soprattutto, c’è un tessuto di norme sociali e culturali che non è a portata di mano. Quindi, per tradurre un’opera medievale bisogna prima studiare quali sono le caratteristiche sociali e culturali che hanno portato alla creazione di questo tipo di letteratura. Sono tanti i punti che, se prendiamo superficialmente, possono risultare oscuri e serve una conoscenza ulteriore di come mai la si pensasse in un determinato modo all’interno del racconto.
In uno di questi, per fare un esempio, c’era un uomo che non si trovava a suo agio nella corte col fratello, perché i cortigiani gli facevano dei doni, trattandolo con compiacenza. Ciò non era cosa gradita, ma perché? Perché lo ponevano in una posizione di inferiorità? Nel loro universo venivano accettati doni in condizioni di subordinazione, a meno che non ci fosse reciprocità: essendo questa la norma, pertanto, decise di andarsene. Se tu non capisci questo punto, che è culturale, allora non ne viene fuori niente.
Un’altra questione rilevante è anche la “piattezza” che oggi risulta da questi testi. Siccome conservavano delle regole residue di una tradizione orale, non c’era una raffinatezza di stile come abbiamo ora. Noi abbiamo un orecchio diverso, ci seccano le ripetizioni. Ma quando racconti una storia sono ripetizioni che vengono naturali, sono fisiologiche.
Per quanto riguarda la lingua, è talmente studiata e ci sono talmente tanti dizionari monolingue o inglesi che c’è sempre la possibilità di cercare una chiave di lettura culturale. Non si va allo sbaraglio, la possibilità c’è ma è molto più impegnativa che tradurre un’opera contemporanea”.
In Italia, la cultura islandese è ancora molto poco conosciuta: cosa direbbe a una persona per convincerla ad approcciare la sua letteratura? Cosa rende unico il patrimonio letterario islandese?
“La letteratura islandese ti apre un mondo, un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati, dove la natura è protagonista principale di qualsiasi romanzo, dove l’uomo e la natura sono in un rapporto completamente diverso. Una letteratura dove ci sono storie con un tipo diverso di relazione sociale. Per un lettore curioso che ha piacere di non limitare la conoscenza dell’Islanda al solo fatto che ci sono geyser, che ci sono vulcani o eruzioni, ma che desidera penetrare meglio nel suo tessuto culturale, sicuramente la letteratura è la chiave principale.
Qual è il racconto che le è piaciuto di più inserire nella nuova raccolta? Quali altri racconti od opere le piacerebbe portare ai lettori italiani?
“In questa raccolta ne avevo lasciato fuori uno, ma poi ho parlato con uno dei miei professori di Reykjavik, specializzata in letteratura medievale, dicendole di voler realizzare questo lavoro. Le ho chiesto quali altri avrei dovuto inserire, e mi disse del racconto di Ivar, che non avevo preso in considerazione ma che poi ho trovato una cosa straordinaria, di una modernità e di una delicatezza straordinaria. È diventato improvvisamente il mio preferito.
Per le altre opere, penso che sia un grandissimo peccato che in Italia manchino quasi del tutto gli autori novecenteschi, soprattutto le donne. Ci sono donne straordinarie che hanno scritto opere di grande importanza e che mancano, come Svava Jakobsdóttir, Ásta Sigurðardóttir, ma anche autori come lo scrittore Indriði G. Þorsteinsson. Mi piacerebbe portare loro”.
Niccolò Radice Fossati
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