Diverse ricerche hanno reso nota la presenza di contaminanti conosciuti come PFAS (Sostanze Perfluoro Alchiliche) e POP (Inquinanti Organici Persistenti) nella popolazione canadese.
I PFAS sono altamente utilizzati in prodotti importati e utilizzati nel suolo artico, come packaging del cibo, vestiti waterproof, pentole, abbigliamento oppure schiume antincendio, mentre i POP – tra cui DDT, PCB e altre diossine già denunciate negli anni 60’ da Rachel Carson nel suo celebre saggio “Silent Spring” – arrivano nell’Artico attraverso correnti marine o ventose.
Si può affermare con certezza che l’interazione umana con questi elementi chimici è praticamente inevitabile. Per decenni, infatti, queste sostanze hanno pervaso l’ambiente, e questo è dovuto al fatto che per molto tempo sono state considerate sicure e prive di impatto ambientale e sulla salute.
Il loro problema, infatti, è proprio la durevolezza e la difficoltà a degradarsi nel tempo, risultando dannose per la salute di umani, piante e animali a lungo termine.
Tra il 2016 e il 2019 il gruppo di ricerca dell’Università di Waterloo sulla Tossicologia ed Esposizione Umana ha condotto uno studio sulla popolazione indigena nei territori del Nord-Ovest canadese e nella provincia dello Yukon con lo scopo di affermare l’esatta incidenza di queste sostanze tossiche sulla comunità.
La ricerca ha dimostrato che gli uomini, in generale, registrano maggiori concentrazioni di PFAS rispetto alle donne, e i numeri aumentano all’avanzare dell’età. Tuttavia, non sono stati riscontrati valori maggiori rispetto alle rilevazioni effettuate sul resto della popolazione canadese situata nelle zone più meridionali. L’unica eccezione lo rappresenta l’acido perfluorononanoico (PFNA), la cui presenza combacia proprio con lo studio sulle donne Inuit che presentano il latte materno altamente contaminato anche da PFNA.
Già nel 2013 erano stati effettuati degli studi di biomonitoraggio da parte di Health Canada, che ha scoperto quantità non indifferenti di PFAS nei tessuti e nel sangue, sintomo del fatto che i canadesi dovranno convivere per sempre con le sostanze – da qui il nome “forever chemicals”.
L’inquinamento da POP, invece, non è cosa nuova in Canada: Sheila Watt-Coutier, ex Chair dell’Inuit Circumpolar Council (2002-2006) era già al corrente della presenza di elementi tossici quali i POP nel suolo Artico e aveva già cercato di portare di fronte al pubblico questo problema. “I lati negativi li subiamo noi Inuit”, affermava Watt-Coutier a BlueVoice, “I contaminanti rimangono in Artico in alte concentrazioni, proprio dove pesci e mammiferi marini si nutrono e vivono”.
I POP registrati, per esempio, nel fegato degli orsi polari risultano 8-10 volte più alto rispetto ai livelli “normali”, e l’elemento più agghiacciante è il ritrovamento di POP anche nel latte materno delle donne Inuit, come già citato in precedenza, con gravi conseguenze sulla salute dei bambini.
Un rapporto del 2016 dell’Arctic Monitoring Assessment Program (AMAP), tuttavia, ha decretato una diminuzione di POP nei ghiacci polari grazie a una sempre più attiva regolamentazione di sostanze tossiche, ma altri elementi sintetici stanno emergendo come nuova minaccia: tra questi, i PFAS.
Non sono chiari gli effetti a lungo termine sulla salute. In Canada i PFAS sono stati vietati da Environment Canada nel 2009, mentre sia il Ministero dell’Ambiente, della Conservazione e dei Parchi dell’Ontario (MECP) sia il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si stanno adoperando per ridurne l’incidenza nelle acque e regolamentarne la presenza in Nord America.
In generale, però, gli individui con alte concentrazioni di sostanze tossiche potrebbero presentare problemi di salute come cancro, disfunzioni della tiroide, menopausa precoce o livelli di colesterolo elevati. Queste tossine, in aggiunta, possono provocare problemi allo sviluppo o disfunzioni del sistema immunitario. Un controsenso, questo, dal momento che la dieta delle popolazioni indigene in condizioni normali sarebbe la più sana e sostenibile tra tutte.
Secondo il Rapporto 2021 dell’Arctic Monitoring Assessment Program (AMAP), tuttavia, non ci sono abbastanza studi che dimostrino come la presenza di PFAS sia determinante nell’insorgere di tali problemi di salute.
Ciò che viene analizzato nel resoconto dell’AMAP è anche il ruolo delle popolazioni indigene nella discussione sulla presenza di contaminanti nell’Artico. Esse infatti sono le prime ad avere immensa conoscenza delle loro terre, avendo da sempre sviluppato un legame fortissimo con la natura e le sue creature.
Le conoscenze locali, combinate con le ricerche e le evidenze scientifiche in suolo circumpolare, possono costituire un’importante risorsa per comprendere in che modo i contaminanti si spostano e soprattutto come questi spostamenti sono legati al cambiamento climatico. E’ bene infatti non separare le due cose: molti PFAS e POP si spostano a causa del riscaldamento globale, o vengono rilasciati proprio a causa dello scioglimento dei ghiacci.
Alcune popolazioni hanno già effettuato dei rilevamenti sullo spessore del ghiaccio – elemento necessario per una caccia in sicurezza – sui dati di rottura dello stesso e su altri parametri dettati dalla grande sfida del secolo. Tuttavia, sarebbe molto importante l’inclusione di comunità native nei progetti di ricerca: realizzare un’unione di conoscenze scientifiche e conoscenze del territorio potrebbe incrementare la possibilità di ottenere risultati attendibili. Alcuni gruppi di ricerca di questo tipo già esistono per il monitoraggio dei POP, ma ancora non è abbastanza.
Vanessa Caforio
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