Nuova tornata referendaria per la Scozia, che punta ad emanciparsi dal Regno Unito per entrare in futuro nel club dei Paesi artici.
Il Regno Unito non è una terra di referenda. Non lo è nonostante il continente europeo ospiti i due terzi delle nazioni che adottano i referenda nel mondo, con la Confederazione elvetica al primo posto, contando più di un terzo di tutti i referenda nel mondo.
Il Regno Unito invece ha iniziato la “stagione” dei referenda solo nel 1973, a parte alcuni sporadici casi, come per il proibizionismo in Scozia del 1920, o i sondaggi sull’apertura dei pub la domenica in Galles negli anni ’60. Il primo referendum per cui tutti i cittadini di Sua Maestà furono chiamati a votare è stato quello del 1975, sulla decisione di rimanere nel mercato comune europeo. Quello successivo è stato solo nel 1997.
La Scozia è unita all’Inghilterra dal 1707, dopo un’unione personale dei reami nella persona del monarca di cent’anni prima. Ma la voglia di indipendenza dalle insurrezioni giacobite – le rivolte a favore della casa reale scozzese degli Stuart – non si sono placate. Una storia che potrebbe cambiare il 19 ottobre 2023, quando i cittadini scozzesi saranno chiamati nuovamente alle urne dopo il fallito tentativo del 2014.
La volontà di essere indipendenti, a parte il fatto di essere una popolazione di origine celtica, avere adottato il calvinismo – nella variante del presbiterianesimo – anziché l’anglicanesimo molto più vicino al cattolicesimo romano, ha anche come base l’essere stata culturalmente assoggettata all’influenza inglese.
In Scozia infatti non si parla praticamente più né lo scots né il gaelico. Collegato a questo, in un’ottica post colonialista – più o meno condivisa da una parte della moderna letteratura indipendentista – si rifà agli effetti culturali della dominazione inglese, proprio come una parte del primigenio nazionalismo d’inizio XX° secolo si rifaceva a una Scozia intesa come entità politica culturalmente distinta.
Ma tornando ai giorni nostri, la chiave per poter vincere il referendum potrebbe essere lo scontento dato dalla Brexit, a cui gli scozzesi votarono contro. Il supporto all’indipendenza sarebbe quindi dovuto a fattori che al momento del voto non erano presenti, ha riportato il 27 giugno il Financial Times.
Ma ahimè a volte i divorzi devono essere fatti in due. La possibilità infatti di indire comunque un referendum spetta al governo di Londra, ma la Supreme Court ha dato la possibilità al Lord Advocate di Scozia di spiegare come, oltre ogni ragionevole dubbio, il Parlamento scozzese possa legalmente indire un altro referendum.
Una Scozia nuovamente indipendente potrebbe però riscontrare problemi economici e politici. Anche se rientrasse nell’Unione Europea come Paese indipendente, il peso specifico di una nazione di 5 milioni circa di abitanti non è certo quello del Regno Unito con le sue nazioni costitutive assieme. Anche se, come riportato sempre il 27 giugno scorso dal Financial Times, l’Irlanda del Nord, attraverso uno speciale regime doganale con l’Irlanda, è l’unica regione assieme alla Grande Londra che è ritornata ai livelli economici pre-pandemia.
Dal punto di vista geopolitico invece gli interessi dei giacimenti petroliferi del Mar del Nord, assieme alle mutate relazioni internazionali potrebbero garantire sì una pace alla rinata Scozia come stato neutrale, ma potrebbero renderla anche più vulnerabile ai suoi nuovi pericoli.
Su un piatto della bilancia non può che esserci un grande rischio, che gli scozzesi vedranno se correre o meno. Sull’altro, però, la possibilità in futuro di essere il Paese europeo più a settentrione, con uno sguardo diretto sull’Artico e sulle future rotte marittime commerciali.
Gianmaria Ricci
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