Oltre la leggenda, le evidenze della scienza confermano la poesia natalizia sulle proprietà specifiche del caribù, animale simbolo dell’Artico.
Cosa farebbe Babbo Natale senza renne, le sue magiche e sapienti aiutanti? Prancer, Dasher, Dancer, Comet, Cupid, Dunder, Vixen e Blixem sono le otto renne che dal 1823, anno della loro comparsa nell’opera di Clement Clarke Moore “Twas the Night before Christmas”, trainano nei cieli stellati del mondo la slitta di Babbo Natale.
E Rudolph? Forse pochi conoscono la leggenda di questa particolare renna dal naso rosso. Rudolph comparve al fianco delle altre renne solo nel 1939, per opera della fantasia dello scrittore newyorkese Robert May, e fu scelta proprio per il suo luminoso naso rosso.
Secondo la leggenda, Babbo Natale, preoccupato per la fitta nebbia che stava avvolgendo la notte e che avrebbe ritardato la consegna dei regali, si ricordò di una piccola e timida renna dal naso rosso brillante. Fu così che Rudolph diventò capofila e nona renna della slitta, la guida che avrebbe per sempre illuminato il tragitto nella notte di Natale.
Ma Rudolph non è solo un semplice simbolo natalizio. È un simbolo dell’Artico. Questa piccola renna, infatti, esiste davvero ma la sua sopravvivenza, come per tutta la fauna artica, è minacciata dal riscaldamento globale.
Ebbene sì. La fauna artica non smette mai di stupirci e di farci cogliere il profondo legame che unisce gli abitanti del Circolo Polare a un clima così rigido e austero. Il bianco candido delle piume del gufo delle nevi, le piccole orecchie della lepre artica, le possenti zampe speronate dell’orso polare.
Non sono gli unici esempi di adattamento alle estreme temperature della regione artica. Anche il caribù, la renna artica alla cui specie apparterebbe Rudolph, sa ben difendere la sua “polar soul”. Questo tipo di renna popola diverse aree del Circolo polare dall’Alaska alla Russia.
Il caribù è un animale fondamentale per il benessere delle popolazioni artiche che con esso convivono. La renna artica è fonte di cibo e di commercio, ma è soprattutto considerata da diverse culture locali un animale sacro. Nelle credenze degli Ojibwe il caribù è visto, ad esempio, come uno spirito guida, un po’ come Rudolph. Mentre, infatti, gli Inuit associano al caribù un simbolo di saggezza, resistenza e rigenerazione, gli Ojibwe, tribù di nativi americani degli Stati settentrionali, riconoscono al caribù una magica capacità di viaggiare e di saper guidare l’uomo-cacciatore nelle difficoltà dei climi rigidi.
Una leggenda Ojibwe narra l’abilità dei caribù di camminare sull’acqua del lago Huron. I reperti raccolti dagli archeologi hanno dimostrato che questa storia è in parte vera, svelando il ritrovamento di un sito di caccia risalente alla Preistoria. I caribù riuscivano a condurre i cacciatori fino all’altra estremità del lago attraverso una sottile striscia di terra immersa a qualche centimetro di profondità nelle sue acque, l’Alpena Amberley Ridge.
E Rudolph? Il suo naso rosso non è solo una leggenda. Tutt’altro. La realtà può insegnare quanto la colorazione del suo muso sia essenziale alla vita dell’Artico stesso, un indice dell’equilibrio dell’ecosistema polare. Quindi, esiste davvero una renna dal naso rosso? Andiamolo a scoprire.
La parola caribù deriva da yalipu che in lingua algonchina significa “spalatore di neve”. Come la renna artica, si nutre dei licheni arbustivi che si trovano sotto la coltre invernale. I palchi e gli zoccoli servono ai caribù proprio per spalare la neve alla ricerca di cibo. Questi cervidi sono degli autentici spazzaneve, messi, però, sempre più alle strette dall’aumento delle temperature.
La frequenza delle piogge nell’Artico, dovuta alla mitigazione del periodo invernale, “cementifica” la neve che copre il suolo e minaccia così la sicurezza alimentare e la sopravvivenza della fauna artica, in particolare dei caribù. Palchi e zoccoli più appuntiti non servono più, la neve solidificata non si lascia spalare.
Ma il global warming può avere effetto anche sul naso rosso delle renne artiche. Secondo una ricerca pubblicata nel 2012 sulla rivista medica online Bmj journal, questo tipo di renna possiede, rispetto all’uomo, circa il 25% di capillari in più all’interno delle cavità nasali. Come hanno fatto gli scienziati a scoprirlo? Semplice, con un tapis roulant.
La nostra renna artica, infatti, è stata messa a correre su un tappeto… e dopo pochi istanti, come per magia, il naso si è acceso di rosso. Ma come è possibile? Credere alla magia del Natale e al naso rosso di Rudolph non guasta mai, ma qui è scienza. Quando il corpo della renna artica aumenta il suo livello di temperatura, ci sono alcune zone, tra cui il muso, che si scaldano maggiormente.
E così, all’arrivo del freddo dell’inverno, l’afflusso di sangue all’interno del naso aumenta riducendo il rischio di congelamento nei momenti di ricerca di licheni o altre piante coperte dalla neve. Il risultato? Un bellissimo e natalizio naso rosso! Il naso rosso di questo piccolo tipo di renna indica non solo l’arrivo della rigidità invernale ma anche il benessere stesso dell’animale, testimoniandone un certo calore corporeo che lo rende capace di vivere e resistere alla lunga notte dell’inverno polare.
Ma la rigidità dell’inverno polare, di anno in anno, tarda sempre più ad arrivare. Lo sconvolgimento dell’alternanza delle stagioni, con inverni più miti e piovosi ed estati più calde e lunghe non compromette solo la reperibilità di cibo delle renne artiche, ma le priva del loro legame con l’ecosistema e della loro stessa insita capacità di adattamento. Il ritardo dell’inverno e della neve, infatti, rischia di spegnere il naso dei caribù o di farlo accendere solo per brevi periodi.
Cosa ne sarà, allora, del muso illuminato di Rudolph? Se davvero la renna dal naso rosso è destinata a non illuminare più il freddo dell’inverno polare e a non essere più una “Christmas icon” a causa del riscaldamento globale, l’aumento stesso della temperatura potrebbe concederci un altro muso vermiglio: quello del Peary caribù, un cervide che popola l’area del Nunavut.
Cosa lega Rudolph, il Peary caribù e il cambiamento climatico? L’Artico si riscalda ad una velocità raddoppiata rispetto al resto del Mondo. Il Peary caribù potrebbe essere la salvezza di quel simbolo natalizio di guida che Rudolph nell’immaginario e nel reale sa interpretare.
Ed è da questa “speranza” che nasce la favola di Colby, un Peary caribù che, cibandosi di sassifraga viola, una delle prime piante a riemergere dopo la lunga notte polare, tinge il suo muso di un forte vermiglio, un colore che ricorda quello del naso rosso di Rudolph. Ma Colby non è una soluzione “natalizia”.
Sebbene lo scioglimento latente dei ghiacci e le anomalie dell’inverno artico possono svelare un anticipo frequente nella fioritura della sassifraga – e allungare così il periodo in cui il Peary caribù tinge il suo muso con i pigmenti di questa pianta – ciò, almeno per il momento, avviene nel periodo primaverile.
E questo esclude Colby dalla possibile sostituzione di Rudolph. Inoltre, anche la vita del Peary caribù è resa difficile dal cambiamento climatico. Anche il Peary caribù risente della transizione neve-pioggia gelata che, solidificando il terreno o la coltre bianca che lo ricopre ne rende quasi impossibile l’accesso per la ricerca di vegetazione.
Rudolph e il suo naso rosso rischiano di sparire per sempre. Cosa ne sarà della renna che riuscì a salvare il Natale se di lei resterà un comune esemplare dal muso grigio? La conoscenza dell’ecosistema è un’arma essenziale nella lotta al surriscaldamento globale quando si parla di conservazione o tutela delle specie animali.
Chi meglio degli Inuit allora per salvare i caribù? La Peary Caribou recovery strategy messa a punto dalle autorità canadesi, è la sintesi tra competenza scientifica e conoscenza locale, entrambe necessarie alla conservazione di questa iconica specie. “Qaujimajatuqangit” è una parola traducibile proprio con conoscenza. Ma non una conoscenza qualunque: una “conoscenza del necessario”, un particolare tipo di sapienza che sa riconoscere e capire le esigenze dell’ecosistema polare e della sua fauna.
Un intero paragrafo della recovery strategy, infatti, è dedicato alle esigenze dei caribù e del loro habitat, entrambi minacciati dalle attività estrattive e dall’aumento di temperatura. La parola chiave è come sempre “mitigazione”. Ovvero, limitare i danni causati causati dall’uomo e dagli stravolgimenti climatici attraverso la protezione e preservazione dei territori in cui questi piccoli caribù vivono.
L’integrità del territorio o, del suolo polare, è fondamentale per la sopravvivenza della fauna così come di tutto l’ecosistema artico. Cosa ne sarebbe dell’Artico senza più il Rudolph? Se il naso rosso dell’iconica renna svanisse significherebbe che del Polo Nord resterebbe ben poco. Rudolph può continuare a essere la rappresentazione non solo del “rescued Christmas” ma anche di un Artico salvato, integro sotto il suo mantello bianco.
Anna Chiara Iovane
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DI ritorno da Kautokeino e dalle terre del grande freddo apprezzo molto questo bell'articolo! Grazie.
Grazie Andrea!