Dalla tradizione degli studi artici in Italia agli effetti della crisi ucraina in artico. Intervista al Professor Alessandro Vitale.
La nuova crisi ucraina porta venti di guerra fredda nei territori euroasiatici. Il solco creatosi tra Biden e Putin sta conducendo sempre più verso una nuova polarizzazione dei poteri che ricorda i tempi della Guerra Fredda.
Tuttavia, la complessità del quadro geopolitico e l’interdipendenza, soprattutto energetica, giocano un importante ruolo di deterrenza per lo scoppio di un conflitto armato. Anche se l’Artico non è il teatro di questo confronto, ripercussioni già ce ne sono, e altre ce ne saranno.
Ripercussioni che si abbatteranno su un quadro già reso complesso dagli effetti del cambiamento climatico e dalle difficoltà che la pandemia ha scatenato. Ma come si intersecano questi discorsi? Che grado di consapevolezza della questione c’è in Italia? E chi se ne occupa?
Il professor Alessandro Vitale – Professore Associato di Geografia Economica e Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche, nonché di Economic Geography e di Arctic Studies presso quella di Giurisprudenza (LLM in Law and Sustainable Development) – dell’Università degli Studi di Milano, ci aiuterà a far luce su molti aspetti.
Tra questi, quale sia il ruolo dell’Italia in Artico, quali sono gli ambienti accademici italiani più proficui in questo settore e, in qualità di esperto di politica russa nella regione, ci aiuterà anche a capire come l’attuale stato di tensione si riverbera sulla regione. Non mancheranno, inoltre, cenni ad esperienze personali nell’ostico artico russo.
Riscaldamento globale e cambiamento climatico sono tematiche sempre più presenti nella nostra realtà, e contribuiscono ad aprire settori di ricerca sempre nuovi. L’Artico è la regione del pianeta che si scalda più velocemente e che più risente degli effetti del cambiamento climatico stesso. Ma qual è il grado di consapevolezza e conoscenza in Italia di ciò che accade in artico? Quali sono gli attori e le istituzioni più attive nella diffusione di questo settore accademico?
“In Italia gli studi climatologici hanno una buona e consolidata tradizione, compresi quelli sull’Artico, oggi incrementati da ricercatori italiani in loco. Basti pensare all’Osservatorio Atmosferico Artico di Thule, in Groenlandia, creato nel 1990 e alla base di ricerca di Ny Ålesund, nelle isole Svalbard, nella quale dal 1997 si fanno studi climatici, meteorologici e ambientali su ghiacci e sedimenti marini, nonché sull’importante interazione tra atmosfera, biosfera, idrosfera e geosfera.
Il veloce riscaldamento del clima artico, al doppio della velocità del resto del globo, è una realtà molto rilevante, che condiziona anche gli studi di scienze umane e sociali sulla regione circumpolare. Tuttavia, nell’opinione pubblica prevalgono ancora nozioni vaghe e molti luoghi comuni, dovuti a un ambientalismo superficiale che fa di tutta l’erba un fascio e che invade spesso con la propaganda il campo della conoscenza e della divulgazione scientifiche.
Non solo vengono ignorate le differenze zonali nei cambiamenti climatici (e ad esempio l’arctic vortex, che per contraccolpo provoca un raffreddamento delle aree sub-artiche o le marcate differenze regionali nel deterioramento del permafrost o, ancora, la stabilità del clima nelle zone continentali siberiane abitate più fredde del pianeta, ecc.) – essendo ormai dominante solo la vaga e imprecisa nozione di “global warming” – ma viene generalmente ignorata anche la complessità di quello che accade nell’Artico.
Questo impedisce di comprendere analisi e soluzioni possibili. Purtroppo in Italia il dialogo fra scienze dell’uomo e scienze naturali è ancora molto limitato, per ragioni storiche e filosofiche precise, che sono ormai obsolete. Negli Arctic Studies invece quel dialogo è diventato sempre più indispensabile.
La presenza italiana in artico si è fatta negli anni sempre più consistente, specialmente nel settore scientifico grazie alla presenza del CNR nella base Dirigibile Italia alle Isole Svalbard. Ma l’attività italiana in artico è circoscritta alla ricerca scientifica o comprende anche altri settori di ricerca?
La base di Ny Ålesund si occupa, come è giusto che sia e non potrà essere diversamente in futuro, solo di scienze naturali. Queste sono però la piattaforma indispensabile per radicare gli Arctic Studies intesi in senso lato: ossia anche gli studi sull’Artico nell’ambito delle scienze politiche, sociali, economiche e in quello del diritto internazionale del mare.
Tuttavia, l’attività italiana proprio nei campi, emergenti e fondamentali, delle scienze umane per comprendere l’Artico, è già molto diffusa e fa parte di una nutrita diaspora, sparpagliata in innumerevoli Università di tutto il mondo. Quando nel 2012-2013 ho partecipato al gruppo di lavoro coordinato, per le scienze umane, da Andrea Scassola (dell’Università di Aarhus, Danimarca), commissionato dal MAE per promuovere l’accesso dell’Italia alla posizione di Paese osservatore del Consiglio Artico, mediante la raccolta dell’attività dei ricercatori italiani sul tema, in patria e all’estero, sono rimasto sbalordito dalla quantità di ricercatori e di ricerche italiane, anche di lungo periodo, sviluppate con grande competenza in Università e istituzioni straniere, anche sulle dimensioni politica, sociale, giuridica ed economica della regione artica.
Adesso si inizia a comprendere la rilevanza degli Arctic Studies anche in Italia. Presso l’Università degli Studi di Milano – che ha una lunga e gloriosa tradizione negli studi artici, nel campo delle “hard sciences” (il Dipartimento di Fisica è intitolato a Aldo Pontremoli, illustre fisico perito nella spedizione Nobile del 1928, con il Dirigibile Italia) – nel 2018 è stato creato, presso la Facoltà di Giurisprudenza (Corso di Laurea in Sustainable Development), grazie alla lungimiranza della Preside, Nerina Boschiero, l’insegnamento di Arctic Studies.
Frequentato da studenti provenienti da tutto il mondo, l’ho tenuto di persona sin dall’atto della sua creazione. Si tratta del primo Corso che affronta in Italia lo studio dell’Artico attraverso la lente delle scienze umane: politiche, economiche, giuridiche e sociali. Un simile insegnamento ha tuttavia sempre più bisogno, in un campo come questo, di essere inserito in un network internazionale di studiosi che analizzano gli stessi temi.
Nel 2013 la diplomazia italiana raggiunge un grande successo: con l’ingresso nel Consiglio Artico in qualità di Paese Osservatore, l’Italia diventa parte della governance artica. Ma quali sono stati gli step per il raggiungimento di questo successo? Perché per l’Italia significa un grande successo e, più praticamente, in cosa è quindi coinvolta?
L’ingresso italiano nel Consiglio Artico in qualità di Paese Osservatore – avvenuto con la Kiruna Declaration, del Segretariato dell’Arctic Council, il 15 maggio 2013 – non era affatto scontato. L’Italia non è un Paese artico, e gli interessi in gioco nella regione hanno creato, per forza di cose – anche se la cooperazione è sempre stata una caratteristica dominante nella dimensione artica – un clima di competizione internazionale che è andato crescendo negli anni.
Per ottenere questo importante risultato, sono stati necessari molti passi. Venne istituito presso la Farnesina il “Tavolo Artico”, foro di coordinamento interministeriale e con enti e imprese (che si riunisce ancora oggi regolarmente), che è stato il punto d’incontro necessario fra attori istituzionali e economici italiani interessati alla regione.
Quindi è stato svolto un lavoro diplomatico sapiente e tenace, supportato da una raccolta di tutte le esperienze, spedizioni, ricerche in campo artico, così come dei nomi degli studiosi e degli esploratori coinvolti da molti decenni in questi studi, per dimostrare l’impegno degli italiani nella ricerca, nella scoperta della regione artica e il loro ruolo nella cooperazione internazionale sul campo.
Ricordo sempre il respiro di sollievo e l’orgoglio che provai dieci anni fa, quando ricevetti la notizia del successo e i ringraziamenti ufficiali da parte della Dott.ssa Molina, del Ministero degli Affari Esteri, per aver partecipato a quell’imponente lavoro di raccolta dati che risaliva alle spedizioni del Duca degli Abruzzi (1899) e di Umberto Nobile (1926 e 1928).
Si erano mobilitate, per ottenere quel successo, le forze migliori di un intero Paese nel campo degli Studi Artici. Lo status di Paese Osservatore è molto importante, perché l’Arctic Council è un’organizzazione intergovernativa fattiva ed efficiente, che è stata realmente capace, a differenza di molte altre istituzioni internazionali, di fornire consulenza scientifica ai governi e di promuovere la cooperazione in numerosi campi cruciali per la regione artica e per il mondo, quali l’inquinamento ambientale, l’economia, la vita delle popolazioni autoctone.
Il Consiglio è persino stato capace di frenare, nei limiti del possibile, le crescenti tensioni fra le potenze rivierasche. La rappresentanza italiana ha già lavorato in campi molto rilevanti: quello della ricerca, quello della sicurezza dei trasporti marittimi degli idrocarburi e quello della cooperazione pubblico-privato. Si sta inoltre rafforzando la presenza italiana nella regione.
La crisi ucraina che stiamo vivendo in queste settimane sembra averci riportato ai tempi della guerra fredda con una Russia, partner energetico fondamentale per l’Italia e per l’Unione Europea, sempre più distante dal blocco occidentale. Crede che una nuova polarizzazione dei poteri possa favorire un nuovo riassetto geopolitico in Artico?
Senza alcun dubbio – come del resto era già avvenuto nel 2014 con la rivolta di Kiev, la cacciata del Presidente Viktor Yanukovich legato al Cremlino, le tensioni e le sanzioni per l’annessione della Crimea – l’attuale scontro Russia-NATO/UE non potrà che peggiorare l’instabilità politica nella regione artica, infiammando le rivendicazioni territoriali e sul controllo marittimo e impattando sul difficile equilibrio di cooperazione che il Consiglio Artico ha cercato a lungo di preservare.
Alcuni Paesi artici hanno visto erodersi la loro neutralità e sono tornati ad armarsi, tornando anche al servizio militare obbligatorio. I problemi dell’Artico che hanno conseguenze rilevanti sul resto del mondo sono innumerevoli e molto delicati. L’isterismo di leader politici e militari a capo di singoli Paesi o di nuovi blocchi politico-militari, figli di quelli vecchi, che pensano solo al loro tornaconto (in termini di potere, consenso, popolarità, occultamento delle loro malefatte e arricchimenti), non può che ostacolare la soluzione di quei difficili problemi e paralizzare la cooperazione internazionale nell’Artico: una sciagura per il mondo intero.
L’eventuale chiusura dei rubinetti del gas (che però sarebbe molto pesante anche per la Russia, anche se può orientare gli scambi verso la Cina, sempre più affamata di risorse naturali) è una possibilità grave, ma nel lungo periodo nemmeno paragonabile alle conseguenze che può comportare una riconfigurazione geopolitica nell’Artico peggiore di quella della guerra fredda.
Nell’arco della sua carriera accademica ha preso parte a diverse spedizioni, per lo più scientifiche, nell’artico russo. Può raccontarci più da vicino la sua esperienza all’interno di queste spedizioni? E se potesse, ne prenderebbe di nuovo parte?
Le spedizioni, italiane e internazionali, motivate da ragioni diverse (naturalistiche, geologiche e glaciologiche, alpinistiche, antropologiche, giornalistiche e di studio), alle quali ho avuto la straordinaria fortuna di prendere parte, dagli anni Novanta ad alcuni anni or sono, nell’Artico russo, mi hanno lasciato in eredità un patrimonio di esperienza e di conoscenza diretta sulle popolazioni autoctone, sulle materie e sui problemi artici in generale, di incomparabile valore, che poi ho potuto affinare anche in altri Paesi artici.
L’Artico russo è una regione meravigliosa, immensa e molto difficile da esplorare, per le distanze che lasciano senza fiato, le difficoltà nei trasporti e da più di un decennio anche a causa dei permessi di viaggio, sempre più difficili da ottenere. Negli anni Novanta la Russia artica era tornata a essere orgogliosa delle sue caratteristiche, più uniche che rare e si lasciava visitare, era molto ospitale. Persino città artiche dai nomi terribili (e in Russia impronunciabili), figlie del Gulag, quali Vorkuta, Norilsk e Magadan, sembravano godere di una mirabile fioritura culturale e civile, alimentata da strati giovanili energici, entusiasti e orientati al futuro.
Poi l’atmosfera calata con la restaurazione politica del duemila è diventata sempre più cupa, investendo anche quelle regioni. Molti giovani se ne sono andati e quelle speranze di rinascita si sono assopite, anche se i proventi del petrolio e del gas hanno consentito di rinnovare la facciata architettonica di numerose città artiche siberiane, che assomigliano sempre più a città canadesi. Nella parte europea invece la situazione è stagnante.
Le spedizioni mi hanno consentito di continuare a esplorare e a studiare – insieme a specialisti russi di grande umanità, cordialità e competenza – regioni molto remote. I nomi sono tanti. Dagli Urali Polari, esplorati con loro in lungo e in largo, per centinaia di chilometri e in anni diversi, sotto il peso di necessari, enormi zaini e bivacchi in tenda a temperature sotto lo zero, al Mar di Kara, con le sue coste affascinanti, alle isole Solovki nel Mar Bianco, in un’epoca in cui ancora erano dimenticate.
Fino alla regione di Vorkuta, raggiunta diverse volte dopo giorni di viaggio in treno, alla penisola di Yamal, partendo da Salechard, alla regione – ecologicamente devastata ma affascinante – di Norilsk (visitata in una missione con l’inviato del Corriere della Sera, Ettore Mo), alla Yakutia, raggiunta in inverno nelle sue propaggini subartiche, alla temperatura di -66°, dopo un viaggio epico di migliaia di chilometri a -55° (a bordo di un furgoncino guidato da yakuti, che correva a novanta all’ora su una neve talmente fredda da sembrare gesso). E alla tristemente nota, ma poco visitata e sconfinata regione della Kolyma, con i suoi fiumi, le sue montagne e la via sterrata di migliaia di chilometri che l’attraversa, la “Strada delle ossa”, lasciata in eredità da milioni di deportati.
Di tutte queste spedizioni mi sono rimasti i dati raccolti, la frequentazione di istituti di ricerca locali, il ricordo di terre incredibili e fantastiche e delle relazioni con i russi locali e le popolazioni artiche autoctone, nomadiche e stanziali, ma anche con i sopravvissuti ai campi artici della morte, non solo russi, fermatisi nella regione. Un’esperienza sufficiente a dare un senso a una vita intera. Mi piacerebbe partecipare a nuove spedizioni di ricerca, magari fino al Mar di Laptev, ma le difficoltà sono aumentate e l’età che avanza non consente più di affrontare viaggi così complessi e di portare sulle spalle per giorni e giorni carichi tanto pesanti.
Rimanendo sulla sua esperienza nelle spedizioni artiche a cui ha partecipato, nell’arco degli anni ha avuto modo di constatare un cambiamento tangibile nei luoghi da lei visitati? Per esempio, ai suoi occhi, la priorità che Putin assegna allo sviluppo della regione artica in termini di approvvigionamento energetico, ha influenzato in qualche modo il territorio e impattato le popolazioni locali?
Negli ultimi anni di spedizioni, in effetti, i cambiamenti erano sempre più evidenti. L’estrazione di idrocarburi è dilagata, con un aumento esponenziale dei problemi per le popolazioni autoctone, che vedono danneggiati i pascoli per le renne e l’ecosistema al quale erano adattati.
Luoghi un tempo irraggiungibili sono oggi percorsi da strade create in pochi mesi, che servono agli operai del settore estrattivo per spostarsi con imponenti mezzi di trasporto e tonnellate di attrezzature. Sul Mar di Kara, una costa un tempo completamente deserta, al ritiro dei ghiacci ha corrisposto l’installazione di decine di impianti estrattivi, sorti come funghi. Nella penisola di Yamal non c’è più nulla che non sia finalizzato all’estrazione.
Tutto nell’Artico russo è diventato area “di interesse strategico”. Le popolazioni locali sono sottoposte a uno stress crescente. La ricentralizzazione del potere non solo può permettersi di ignorare la loro voce, in assenza totale di autogoverno, ma può frenare anche i controlli degli abitanti e della società civile sull’inquinamento, così come quelli della comunità internazionale.
La possibilità di opporsi e di bloccare la creazione di impianti pericolosi, come era accaduto nel 2006 a Irkutsk – con la mobilitazione della popolazione, alla quale anch’io ebbi per puro caso la fortuna di partecipare – contro il pericolosissimo oleodotto che volevano costruire a nord del lago Bajkal, oggi non sarebbe più possibile.
Del resto, l’irrigidimento politico, la centralizzazione del potere e la chiusura verso l’esterno sono proprio quei fattori che nel periodo sovietico hanno consentito il continuato, criminale bombardamento nucleare sperimentale delle isole della Novaja Zemlja, una terra incantevole (basta leggere il racconto di Umberto Nobile, che vi tornò a bordo del Malygin nel 1931, anche per cercare traccia dei dispersi del Dirigibile Italia), ma oggi del tutto inabitabile, morta, perché radioattiva. Le conseguenze di quel fallout nucleare si erano già fatte sentire sui neonati in Scandinavia e soprattutto in Norvegia negli anni Sessanta e Settanta. Una lezione, questa, che è stata dimenticata e che sarebbe opportuno ricordare”.
Marco Volpe
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