Con il termine “Riconciliazione” (e il lungo processo alla base), il Canada ha fondato la sovranità moderna nell’Artico. Ma per evolverne il significato deve affrontare i divari di sviluppo nord-sud e l’agenda sulla sostenibilità, realizzando una visione per il Nord nazionale, condivisa e di lungo periodo.
Nel secondo capitolo dell’indagine sulla sovranità nell’Artico, (qui la prima: Sovranità nell’Artico (parte I): perché è importante e le sfide per il Canada), Laura Borzi si concentra sulle popolazioni aborigene del Canada come parte costitutiva della identità e della sovranità canadese. Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con il Centro Studi Italia Canada. Laura Borzi è analista del Centro Studi Italia Canada con focus su Artico canadese e la politica estera di Ottawa.
La vicenda del Nord è indissolubilmente legata alla storia della colonizzazione europea del continente americano. Prima la conquista territoriale, la stipula di accordi non sempre rispettati dal potere forte, infine l’assimilazione forzata. Una vicenda che ha perpetuato la dicotomia Nord-Sud in un processo di alienazione dell’altro (the othering), una modalità caratteristica del colonialismo del Vecchio Continente ad ogni latitudine del pianeta come prerequisito per il successivo sfruttamento economico.
In Canada, il lungo processo di riconciliazione tra le parti si è messo in moto oramai da decenni, un’evoluzione frutto di riflessione e trasformazione della politica interna, ma anche di dinamiche internazionali, tra cui la creazione del Consiglio Artico, che ha dato voce e visibilità agli abitanti del Nord, grazie alla presenza al tavolo, insieme agli Stati, delle popolazioni indigene come partecipanti permanenti.
Il Consiglio, con i 6 gruppi di popolazione indigena, è un luogo unico, dove gli abitanti del Nord prendono parte alle deliberazioni e portano un contributo alla decisione, sebbene questa resti in capo agli Stati che decidono per consensus. Le popolazioni del Nord costituiscono garanzia della sovranità canadese in Artico in quanto parte attiva nella gestione del loro territorio in un rapporto che è diventato pressoché “paritario” con il Governo federale e contribuiscono alla formazione della politica artica canadese.
L’ostacolo maggiore alla piena realizzazione delle potenzialità del Nord è dato dal restante enorme divario di condizioni di vita che separa le popolazioni del nord da quelle del sud. Solo i progressi in questa direzione si tradurranno in una piena ed effettiva sovranità in senso moderno.
Questo va di pari passo con il ruolo di leadership che Ottawa ha intenzione di giocare sul piano internazionale il cui esercizio pare imprescindibilmente legato al concreto avanzamento delle questioni interne in merito a:
I trattati storici tra la Corona (termine che indica i governanti, rappresentati prima dagli inglesi e poi dal Canada) e le popolazioni autoctone hanno inizio nel 1763 con la Royal Proclamation da parte di Giorgio III d’Inghilterra, che attribuisce ai sovrani grandi superfici di terra ovvero i titoli ancestrali sono trasferiti alla Corona in cambio di terre di riserva e alcuni vantaggi.
Nel 1876 il parlamento canadese approva l’Indian Act con cui si “prendono sotto tutela” gli abitanti delle First Nations, mentre nel 1927 il Canada vieta alle Nazioni indiane di portare avanti le rivendicazioni sulle terre. L’epoca dei trattati moderni comincia nel 1973 con la decisione della Corte suprema (Calder et al. vs Procuratore Generale della British Columbia BC) che ha riconosciuto per la prima volta i diritti ancestrali contro la posizione sostenuta dal Governo della BC secondo cui la Royal Proclamation non si applicava.
Tale decisione ha condotto all’elaborazione di una politica su rivendicazioni territoriali globali e al primo trattato moderno: la Convenzione sulla Baia di James e del Nord Quebec. Molte delle intese firmate a partire dal 1975 con i gruppi autonomi sono relative all’autonomia governativa e costituiscono il fondamento delle relazioni tra 97 comunità autoctone e governi provinciali territoriali e federali[1].
Nel 1982 la Costituzione canadese riconosce che le popolazioni Indigene hanno inerente diritto di autogoverno garantito nella sezione 35 del Constitutional Act.
Alla fine degli anni ‘80 comincia a farsi strada in tutta l’area circumpolare l’orientamento all’autogoverno, quando gli abitanti delle città dell’Artico decidono di intraprendere un dialogo con le popolazioni indigene. Questo processo ha dato il via agli accordi di autogoverno delle popolazioni aborigene. Per Il Canada il successo di tali intese è da attribuirsi alla scarsa presenza al tavolo da parte della giurisdizione federale.
Con il delinearsi di accordi innovativi di condivisione del potere tra la leadership indigena e quella territoriale, si oltrepassano di gran lunga quelli del XIX secolo e si attribuiscono alle popolazioni artiche il titolo su terre corrispondenti al 40% della massa terrestre canadese (corrispondente appunto al Nord).
Negli ultimi decenni i negoziati hanno risentito positivamente delle novità apportate dallo sviluppo del diritto autoctono e dalla mobilizzazione dei gruppi che sono intervenuti ai tavoli di confronto e si è andati verso un sempre maggiore trasferimento di competenze a livello locale. Il percorso di devolutionnell’ambito circumpolare è una tendenza diffusasi in Artico già con l’esempio della Groenlandia e della Home Rule del 1979.
Quasi un decennio più tardi, il discorso di Murmansk di Gorbachev (1987), volto a rendere l’Artico una zona di pace, invitava ad intraprendere un dialogo sulla sicurezza e sulle questioni ambientali con la partecipazione delle popolazioni artiche. Con la fine della guerra fredda il ritmo delle intese sui diritti della terra in Artico ha subito un’accelerazione.
Il Finnmark Act, ottenuto dai Saami della Norvegia nel 2005, ha delineato una forma di cogestione del territorio che ha tratto molta ispirazione dall’esempio canadese. Al di là della lettera degli accordi, resta come strada da percorrere alimentare il dialogo e il processo di riconciliazione per fare in modo che la distanza fisica tra i governanti degli Stati artici e le popolazioni del Nord non rimanga anche distanza psicologica[2].
In questo flusso di dinamiche interne ed internazionali, il Consiglio Artico, alla cui creazione il Canada ha dato un notevole contributo, ha riconosciuto le popolazioni indigene come partecipanti permanenti e interpreti delle scelte che si operavano sui loro territori. Questa promozione delle voci dell’Artico, favorita dalla conclusione di trattati, ha reso i locali maggiormente attivi e attivato un processo, non ancora terminato, nella direzione di un governo dei popoli indigeni incentrato sull’autodeterminazione.
La questione dell’autodeterminazione dei popoli indigeni non è rivolta all’ottenimento di una sovranità distinta rispetto agli Stati di appartenenza, ma si esprime nella linea di godere di diritti garantiti, come stabilito dalla Carta Nazioni Unite.
Gli aborigeni non hanno aspirazioni secessionistiche. Sono i loro rispettivi Stati a dover mettere in campo le adeguate opportunità politiche e gli strumenti giuridici per favorire la partecipazione e la presa di decisione a livello locale e delle popolazioni.
Significativa a tal proposito è la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni (12.09.2007 n 61/295) adottata nel 2007 dall’Assemblea Generale dopo oltre 25 anni di negoziati, con il voto contrario di Canada, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, che nel tempo hanno rivisto le loro posizioni.
Lo scopo del documento, non vincolante ai sensi del diritto internazionale, è quello di garantire i diritti individuali e collettivi come il diritto alla vita, ad un’esistenza senza discriminazioni e il diritto all’autodeterminazione come indicato all’articolo 3.
L’articolo 5 del testo delle Nazioni Unite recita che i popoli autoctoni hanno il diritto di mantenere e rafforzare le loro istituzioni politiche, giuridiche economiche, sociali e culturali conservando il diritto di partecipare pienamente alla vita politica, economica, sociale e culturale dello Stato.
Nel maggio 2016, il Governo di Ottawa ha annunciato il sostegno senza riserve (espresse a suo tempo dai Conservatori) per quella parte del documento in cui si chiedeva agli Stati di ottenere il consenso preventivo, libero e informato quando si portano avanti politiche in grado di avere un impatto sui diritti dei popoli.
Sebbene la Dichiarazione delle UN sui diritti dei Popoli autoctoni non sia stata ancora tradotta in un corpus di norme interne, il governo liberale continua la ri-costruzione della relazione con i popoli indigeni definita da Trudeau come la più importante già nel corso del primo mandato (2015-2019).
A tal proposito, il 3 dicembre 2020, il Ministro della Giustizia e Attorney General, David Lametti, ha introdotto una proposta di legge (Bill C-15), in cui si afferma che la Dichiarazione è uno strumento universale in tema di diritti umani con applicazione nella legislazione canadese. Il progetto di legge è volto a stabilire un quadro di riferimento per far avanzare la legislazione federale nel senso di conformità alla Dichiarazione del 2007, favorendone l’implementazione nel diritto interno.
Questa sembra la via da percorrere: da un lato la scelta politica, che riconosce il valore di uno strumento universale a tutela dei diritti umani, dall’altro lo strumento giuridico che impone al Governo Federale un’azione legislativa conforme alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli autoctoni.
Non ci sono dunque dubbi sulla presenza delle popolazioni indigene come parte costitutiva della sovranità canadese in Artico. Le prospettive sulla sovranità nell’ottica di Ottawa e delle popolazioni indigene non sono sempre state coincidenti. Ma oggi si delinea una maggiore convergenza di obiettivi poiché è abbastanza palese come l’impronta internazionale della politica canadese in Artico non possa prescindere da un Nord protagonista.
La presenza Inuit a presidio della sovranità canadese in quanto abitanti e possessori delle terre è essenzialmente la prospettiva del Governo centrale.
Si tratta di un approccio ribadito in dichiarazioni e documenti ufficiali che reiterano la formula “dell’occupazione della terra da tempo immemorabile”. In un discorso alla Camera dei Comuni nel 1985 il Ministro degli esteri, Joe Clark, affermava:
Canada’s sovereignty in the Arctic is indivisible. It embraces land, sea and ice. It extends without interruption to the seaward facing coasts of the Arctic islands. These islands are joined, and not divided, by the waters between them. They are bridged for most of the year by ice. From time immemorial Canada’s Inuit people have used and occupied the ice as they have used and occupied the land.
Il contributo degli Inuit alla storia, identità e sovranità canadesi in Artico è riconosciuto nel preambolo dell’accordo di rivendicazione delle terre del Nunavut del 1993 (Nunavut Land Claims Agreement) il cui articolo 15 stabilisce che:
Canada’s sovereignty over the waters of the arctic archipelago is supported by Inuit use and occupancy.
L’enunciato di politica estera del 2010, penultima Strategia canadese per l’Artico, sottolineava che il primo e più importante fondamento nella presa di coscienza nel potenziale del Nord è l’esercizio della sovranità qualificata come “longstanding, well–established and based on historic title, founded in part on the presence of Inuit and other Aboriginal peoples since time immemorial”.
Questa necessità della presenza umana a Nord si è tradotta alla metà del secolo scorso in politiche di dislocamento delle popolazioni proprio per timore di rivendicazioni territoriali. Nel 1953 lo spostamento di famiglie Inuit da Inukjuak, nel nord del Quebec, e da Pond Inlet sull’isola di Baffin a Grise Fiord e Resolute Bay 1.500 km più a Nord ha significato non solo lo spostamento di un’intera cultura in un habitat completamente diverso, ma l’utilizzo delle popolazioni come bandiere umane, causando difficoltà e sofferenze estreme.
Solo un decennio fa, nell’agosto 2010, il Governo federale ha formalmente chiesto scusa per le deprecabili azioni portate avanti nel timore suscitato dal dislocamento militare statunitense nell’artico canadese nel corso della Seconda guerra mondiale.
La prospettiva delle popolazioni artiche in merito alla sovranità ha in un certo senso un duplice aspetto: il primo circumpolare/internazionale e un secondo di carattere interno. Il punto di vista internazionale deriva dalla circostanza che gli Inuit sono un popolo che si espande in 4 Paesi che sono cresciuti intorno al territorio del Nord:
Those States that did grow up around us have impaired our territorial integrity, and indeed they have impaired our cultural integrity[3].
Nel 2009, il Consiglio circumpolare Inuit, che rappresenta gli Inuit di Groenlandia, Canada, Alaska e della Regione di Chukotka in Russia, ha adottato una propria definizione di sovranità: la questione della sovranità e dei diritti sovrani deve essere valutata nel contesto della lunga storia di lotta per ottenere riconoscimento e rispetto come popoli artici aventi diritto all’autodeterminazione di territorio cultura e lingua.
In quell’occasione si è osservato che la Dichiarazione di Iulissat, emanata dagli Arctic Five nel 2008, che pur faceva riferimento al diritto internazionale allo scopo di risolvere le dispute di sovranità, non menziona gli strumenti per promuovere e proteggere i diritti delle popolazioni. Inoltre, è stato rilevato che, vista la connessione tra questioni di sovranità e diritti sovrani degli Stati, gli Stati artici dovessero accettare la presenza degli Inuit come partner nella condotta delle relazioni internazionali in Artico.
La Dichiarazione di Ilulissat, emanata dagli Stati rivieraschi in un momento in cui sembrava iniziare la corsa all’accaparramento delle risorse artiche, ha anche suscitato le proteste dei Paesi membri del Consiglio Artico non costieri, Finlandia, Islanda e Svezia, che denunciavano la modalità di azione degli Artic Five come una univoca gestione delle sorti del Polo Nord da parte di un club ristretto.
Per quello che riguarda i diritti indigeni di sovranità sulla terra e anche sulle acque, tuttavia, la loro marginalizzazione nel processo decisionale è legata al fatto che la Convenzione sul diritto del Mare UNCLOS (1984), che delinea la cornice del diritto del mare, vede protagonista lo Stato-organizzazione e non prende in considerazione i diritti indigeni.
Non può sfuggire una certa dicotomia tra la narrativa del Governo canadese in merito alla retorica delle terre in possesso degli aborigeni da tempo immemorabile, giustamente inserita nei trattati con le popolazioni a garanzia del loro possesso, e il concetto di sovranità canadese tout cour dal momento che i titolari di obblighi ai sensi del diritto internazionale sono gli Stati. Sono proprio gli Stati che, tramite percorsi interni, possono rendere partecipi le popolazioni locali anche nella politica estera.
Questo significa ad esempio includere gli abitanti del Nord nelle delegazioni nazionali che si occupano dell’elaborazione dei trattati. Circostanza che si è già verificato nel processo che ha condotto al trattato sul divieto di pesca commerciale nell’Oceano Artico centrale che ha inibito questa attività per un periodo di almeno 16 anni.
Naturalmente le opportunità di dar voce e conferire diritti ai popoli indigeni nelle convenzioni internazionali è scelta politica fortemente auspicabile.
Le UN hanno adottato nel 2015 una risoluzione per dare avvio ad un processo che conduca ad un accordo giuridicamente vincolante sulla conservazione ed utilizzazione sostenibile della biodiversità marina nelle zone fuori dalla giurisdizione degli Stati (Biodiversity Beyond National Jurisdiction).
L’accesso degli Inuit alle risorse artiche è fondamentale, in particolare in un momento in cui il rischio associato al cambiamento climatico mette in pericolo la stessa sopravvivenza. È dunque quanto mai opportuno che gli Stati accettino il ruolo degli aborigeni come partner nella condotta delle relazioni internazionali concernenti l’Artico.
Emerge una duplice dinamica del possesso del territorio:
Ottawa ha spesso traslato a nord il concetto di sovranità e confine territoriale tipico del sud. Ma il concetto westphaliano convenzionale di rapporti tra Stati e di protezione del territorio non è più adeguato a gestire i confini in generale, tanto meno al nord, dove il controllo dello Stato si è rivelato sempre tenue.
Del resto, non è neanche il concetto di sovranità che è utile alle popolazioni del Nord. La sovranità canadese in Artico non ha bisogno di dichiarazioni altisonanti nei consessi internazionali, per dirlo con le parole di Duane Ningaqsiq Smith, Presidente dell’Organizzazione che è stata istituita per gestire le questioni relative all’accordostipulato tra il Governo del Canada e il Inuvialuit nel 1984.
Nel corso di una testimonianza al Comitato permanente degli affari esteri e dello sviluppo internazionale, Duane Ningaqsiq Smith ha indicato come la sovranità artica comporti una popolazione istruita, capace di difendere le coste del Nord per conto del Canada, una gestione migliore dell’ambiente marino con una pronta risposta alle sfide.
In particolare, è essenziale l’edificazione di una partnership basata su diritti e doveri reciproci in modo che il Canada ed il Nord possano far fronte in modo unito alle minacce della sicurezza nazionale. A questa concezione della sovranità ha cercato di rispondere l’ultima strategia emanata a settembre 2019: Arctic and Northern Policy Framework.
Il documento politico, da qui all’orizzonte 2030, intende edificare un futuro che sostenga l’autodeterminazione e sia in grado di nutrire una relazione di rispetto reciproco tra popolazioni indigene e non indigene. Nel corso dell’elaborazione della Strategia, un processo durato l’intero primo mandato Trudeau, passi avanti sono stati fatti nella direzione di rendere protagoniste le popolazioni che vivono al Nord.
Il leader Inuit Mary Simons e rappresentante speciale del Ministro per gli affari del Nord, che ha molto lavorato alla fase preliminare dell’elaborazione del documento, ha definito essenziale eliminare il divario tra quello che il sud dà per acquisito e quello che esiste realmente in Artico in termini di livelli di salute, sviluppo economico e sociale, infrastrutture, istruzione, giustizia.
Popolazioni del Nord resilienti e in salute e l’impegno alla riconciliazione con gli abitanti del Nord sono parte della promessa di un futuro che sostenga l’autodeterminazione e nutra relazioni mutualmente rispettose tra la popolazione indigena e i non indigeni
La sfida per il governo sta nella volontà di superare le tendenze centralizzate per sviluppare insieme al Nord misure in grado di riflettere gli obiettivi dei partner, la realizzazione piena della governance collaborativa in grado di sviluppare le potenzialità del Nord a vantaggio della prosperità del Canada.
Fino al Framework del 2019 poco ci si era focalizzati sul valore umano ed economico del Nord, se non nella forma di un obbligo sociale da parte del Governo federale, mentre essenziale è rimediare alla grave carenza di infrastrutture che inibiscono lo sviluppo del Nord perpetuando il senso di isolamento dal resto del Paese.
Si è osservato[4] che il modo più efficace per proteggere e rafforzare la sovranità artica di Ottawa è di volgere attenzione ai bisogni di infrastrutture e investimenti, in sostanza le componenti necessari di un’economia di base. Nell’Artico nordamericano mancano infrastrutture come strade, porti SAR, cavi di fibra ottica, alloggi, porti di acqua profonda che siano attivi tutto l’anno.
In questa prospettiva il Canada registra un ritardo rispetto agli altri Paesi artici, come ad esempio la Norvegia, nell’espansione della pesca e dello sviluppo degli idrocarburi offshore. (Senza citare la Strategia russa dello sviluppo al Nord, elemento caratterizzante del ritorno di Mosca sulla scena mondiale).
Mentre il sistema geopolitico globale cerca un nuovo assetto e il modello di governance liberale con al centro l’Occidente è in parte rimodellato dalle periferie, anche il Nord canadese diventa area di interesse globale. In tale quadro la sovranità canadese in Artico non è minacciata, semmai è fonte di opportunità economica e strategica.
Il Canada ha espresso l’intenzione di giocare un ruolo di leadership negli affari circumpolari a livello internazionale e questo significa in concreto far progredire le urgenti questioni interne relative al pieno sviluppo del Nord e delle sue popolazioni. Solo in questo modo, la presenza umana sul territorio potrà manifestarsi in un nuovo e valido concetto di sovranità moderna.
[1]Diritti di proprietà per 600 000 Km2 di territorio, trasferimenti di capitali per 3,2 miliardi di dollari, protezione dei modi di vita tradizionali, accesso all’esplorazione delle risorse, partecipazione alla decisione sulla gestione delle terre e delle risorse, diritti sulla terra per il 40% della massa terrestre del Canada, diritti relativi ad autonomia governativa e riconoscimento politico.
[2]In questo senso, un percorso significativo è stato quello dell’istituzione della Commissione di verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission of Canada) per far luce sugli eventi delle Residential Schools. A giugno 2015, la Commissione ha presentato un rapporto con le Conclusioni e 94 Calls to Action al fine di rimediare alle conseguenze del sistema delle Residential Shools e portare avanti il processo di riconciliazione nel Paese.
[3]Dalee Sambo Dorought, A land without borders-Inuit Cultural Integrity pag 69, The North American Arctic, Themes in Regional Security ed by Dwayne Ryan Menezes, Heather N.Nicol , UCL Press, 2019
[4]Dr. Jessica M. Shadian ,Canadia’s Sovereignty in the Arctic, Brief to the Standing Committee on Foreign Affairs and International Development, November 2018
Laura Borzi
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