Il problema del permafrost è reale e concreto. I dati ci aiutano a comprenderne la dimensione e capire gli effetti dello scioglimento degli strati ghiacciati più antichi del pianeta.
Permafrost
Permafrost. Secondo Treccani, uno «strato di terreno gelato, probabilmente di origine glaciale, che, a diversa profondità, si trova sotto la superficie terrestre, specialmente alle alte latitudini». Da perma(nent) «permanente» e frost «gelato». Un’etimologia che parla di uno stato fisico che dovrebbe durare per sempre. Lo scioglimento del permafrost mette in crisi quindi l’ontologia stessa di questo elemento, e con esso il futuro del clima terrestre.
Quest’estate le prime pagine nazionali e di tutto il mondo si sono susseguite nell’annunciare nuovi record di temperatura e il loro superamento. Quasi un’asta al rialzo, in cui il pubblico dopo un po’ smette di stupirsi. Ondate di calore, alluvioni e scioglimento dei ghiacci, fenomeni messi in moto dall’aumento delle temperature, stanno diventando parte dell’iconografia dell’impatto che l’uomo ha sul Pianeta. Lo stesso non si può dire riguardo allo scioglimento del permafrost, uno degli effetti più preoccupanti e al tempo stesso meno discussi, del cambiamento climatico.
Questo terreno perennemente ghiacciato copre circa 22,8 milioni di chilometri quadrati nell’emisfero settentrionale della Terra, in regioni dove le temperature non salgono mai sopra lo zero durante i lunghi inverni. Tra queste la Groenlandia, l’Alaska, la Russia, la Cina e l’Europa orientale, oltre ai fondali degli oceani della regione Artica. Si considera convenzionalmente permafrost una terra ghiacciata da almeno due anni, il cui spessore può variare da 1 a oltre 1.000 metri. «Stiamo parlando del 25% delle terre emerse dell’intero emisfero boreale del pianeta, una fetta di territorio impossibile da controllare», racconta Tommaso Tesi, ricercatore dell’Istituto di Scienze Polari (ISP) del CNR.
Il fattore dell’accelerazione
Con oltre 50 articoli scientifici su riviste peer-review sul tema, e con un’ampia esperienza sul campo, Tesi non usa mezze misure per definire il permafrost una clessidra che ci dà la misura di ciò che ci aspetta. Il permafrost, come detto, non si trova solo nella regione artica, ma anche sulle Alpi e sulle catene montuose statunitensi, sui massicci dell’Asia centrale e perfino sull’Etna. Ma è qui, nella regione polare, che il terreno ghiacciato diventa un fattore cruciale per la corsa alla salvaguardia climatica del pianeta.
«Tutte queste aree sono suscettibili al riscaldamento in atto, e parliamo di porzioni di territorio che sono ghiacciate da almeno 20.000 anni. Il fenomeno della fusione del permafrost non è omogeneo, e le aree di terreno congelate che vengono a contatto con l’atmosfera sono chiaramente quelle più soggette al deterioramento del suolo. L’aumento delle temperature così come lo stiamo vivendo significa vedere il permafrost che viene a contatto con il ciclo biologico, rilasciando nell’atmosfera virus e batteri che qui sono imprigionati dall’Olocene».
Se dell’Artico si parla sempre in relazione allo scioglimento e alla fusione dei ghiacci – specialmente quelli marini del Mar Glaciale Artico – il tema del permafrost risulta meno chiaro. Ma rappresenta un potenziale moltiplicatore di gas serra dall’effetto incontrollato. «La componente di carbonio intrappolata da decine di migliaia di anni in questo terreno, entrando in contatto con l’ossigeno dell’atmosfera, genera CO2, e quindi anidride carbonica, che va a sommarsi all’imponente massa dei climalteranti che oggi cerchiamo di mitigare con tante e diverse iniziative mondiali.
Il carbonio che invece viene rilasciato nei laghi polari, libera metano. Questo amplifica ulteriormente gli effetti devastanti del cambiamento climatico, avendo un potere climalterante decine di volte superiore all’anidride carbonica. Un circolo vizioso», aggiunge perentoriamente Tesi, «da cui non possiamo uscire con le attuali forme di mitigazione dell’impatto ambientale».
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Annalisa Gozzi
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