Pubblicata lunedì scorso la nuova strategia artica degli Stati Uniti, con un forte accento sugli investimenti tecnologici per la sicurezza.
Dopo diversi mesi dal suo annuncio, la nuova strategia artica del Pentagono americano è stata pubblicata questo lunedì. Questa volta – a differenza della precedente versione dell’amministrazione Trump nel 2019 – la strategia segue il formato public friendly, inaugurato dagli stati nordici già nei primi anni della “corsa all’Artico”. Quasi a voler inaugurare un rinnovato impegno nella politica circumpolare che per anni ha visto spesso Washington se non assente, almeno reticente.
La strategia artica del mandato Biden-Harris apre un nuovo “ciclo” di politica artica, espandendo e “concretizzando” i mandati politico-strategici prefissati nel 2022. In primis la National Security Strategy e in particolare la National Strategy for the Arctic Region della Casa Bianca pubblicata nell’ottobre 2022. Come già chiaro in quest’ultima, la continuità della politica artica americana dell’amministrazione Biden – compresa la visione del Pentagono – trova continuità nei toni, nei temi e nelle priorità principalmente con la politica artica di Obama.
Si dà quindi una svolta alla visione di un Artico che nella strategia di tre anni fa era a rischio di «aggressione da parte di grandi potenze» in «un’era di competizione strategica», dove gli avversari (Russia e Cina) guadagnavano vantaggio a scapito di Washington su più livelli (militare, economico, logistico). Il cambiamento climatico non è più il grande assente e si propone una visione più cauta, decisamente più multilaterale e cooperativa, ma (soprattutto) più strutturata, per riportare gli Stati Uniti al Nord.
Il filo rosso che parte da Obama, passa per Trump, e arriva a Biden lega ancora Russia e Cina. Le attività di Cina e Russia in Artico destano preoccupazione, soprattutto se percepite – come in questo caso – “in combutta” (la Cina resta, per gli Stati Uniti, uno stato “non-artico”). Non è solo una questione di hard power, come emergeva piuttosto nella strategia del 2019: l’influenza della Cina, secondo il documento, passa anche attraverso la governance regionale, la Polar Silk Road (il ramo artico della Belt and Road Initiative) e una retorica che propone a livello internazionale l’Artico come bene comune globale in cui garantire l’accesso di stati artici, e non a scapito degli attori geograficamente che si affacciano sul Polo.
Il quadro post-aggressione in Ucraina ha, in questo senso, aggravato una relazione russo-cinese già certamente “pericolosa” per gli Stati Uniti. Più dell’80% della produzione di gas naturale russo e circa il 20% della produzione di petrolio – si legge – provengono dall’Artico e, in un quadro internazionale in cui la Russia è isolata, la Cina appare massicciamente coinvolta nei processi di finanziamento ed estrazione di un mercato più vantaggioso. Allo stesso modo, l’entrata nella NATO di Svezia e Finlandia rafforza la posizione americana, immettendo notevole know how e risorse artiche sulla sfera militare, ma pone inevitabili rischi nella regione a causa della vicinanza al confine russo. Che potrebbero aggravarsi.
Gli effetti del cambiamento climatico tornano chiaramente a far parte delle preoccupazioni e dei rischi della presenza americana in Artico. Si sottolineano i rischi a cui sono esposti infrastrutture e personale (permafrost, erosione costale, incendi, variabilità del tempo meteorologico) e la necessità di equalizzare le difficoltà con un operato, anche maggiore, delle forze sul campo. Quanto e come questo verrà fatto, tuttavia, sarà da monitorare attraverso i fondi stanziati durante il processo legislativo.
Non è sicuramente un caso che la strategia artica del Pentagono arrivi pochi giorni dopo l’annuncio dell’Ice Pact, la partnership tra Stati Uniti, Finlandia e Canada siglata questo mese per immettere nuovo slancio – economico, industriale, finanziario, strategico – nella corsa alle rompighiaccio che vedeva Washington, da sola, in buona difficoltà. Quello che si prospetta, tuttavia, non è un repentino colpo di scena, ma piuttosto ricalibrazione e rafforzamento degli asset artici.
Forse la vera chiave di volta è proprio l’importanza (ancora più inconsueta in un documento della difesa) della costruzione di una “Arctic literacy” delle forze armate che permetta di valorizzare l’“entrata in campo”, ben più appariscente, di radar, sensori, satelliti, velivoli da combattimento, il monitoraggio dei sistemi nucleari e missilistici.
L’ Arctic literacy, per una potenza a lungo lontana dal proprio Artico, si persegue con studio e ricerca per educare «leader militari e civili alle complessità della regione artica» e trasmettere, quindi, tale conoscenza attraverso tutta la rete di partnership che ruota attorno al Dipartimento della Difesa. Il documento cita il Ted Stevens Center for Arctic Security Studies, ma i programmi al momento sono molti ed estremamente trasversali.
I cambiamenti che hanno interessato lo scenario internazionale in questi anni rendono sempre più impellente una visione a trecentosessanta gradi dell’Artico. L’Artico non è solo una regione di crescente competizione militare. È un teatro interconnesso, globale, rampa di lancio non solo verso l’Europa ma anche verso l’Indo-Pacifico e gli Stati Uniti stesso. È un teatro di interesse per le forze spaziali.
Il cambiamento climatico crea opportunità, ma anche rischi. Conflitti in altre regioni importano ripercussioni importanti, anche indirettamente, sulla tenuta delle relazioni regionali e internazionali. In questo senso, la nuova strategia del Dipartimento della Difesa tratteggia un quadro destinato a diventare via via più familiare anche a chi non abita in Artico.
Agata Lavorio
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