Nell’Artico i rapidi effetti del cambiamento climatico influenzano la mobilità delle comunità indigene aggiungendosi a pressioni preesistenti
Un mondo che cresce
Fino a 200 milioni di persone entro il 2050. Questa la stima sui flussi migratori causati dal cambiamento climatico del Professor Norman Myers, confermata da numerosi studi. Un numero che evoca immediatamente scenari apocalittici.
La crisi climatica impatta le dinamiche migratorie globali nonostante la cecità politica e giuridica. Tuttavia, occorre cautela nel tracciare una linea uni-causale e deterministica tra le emissioni di gas clima-alteranti e la mobilità di milioni di persone.
I rischi sono molteplici. Da un lato sottostimare il ruolo di fattori economici, politici e sociali. Dall’altro, alimentare agende xenofobiche e sconnesse dalla realtà. La maggior parte dei migranti climatici, infatti, non attraversa confini nazionali, soprattutto nell’artico.
Un quadro variegato
Il rapido degradamento dell’ambiente e l’imprevedibilità del clima sfidano le capacità di adattamento delle comunità indigene della regione con impatti diversi a livello locale.
Lungo le coste atlantiche del Canada, in Alaska, Siberia e Groenlandia, l’azione combinata dello scioglimento del permafrost, dell’erosione costiera e dell’innalzamento del livello del mare fagocita le terre abitate. In posti come il villaggio Inuit di Shishmaref, sulla piccola isola di Sarichef nel mare di Chukchi, i rischi all’orizzonte sono chiari.
I suoi abitanti hanno votato già due volte per dislocare integralmente la comunità, ma il costo è proibitivo. In tutta la regione i tradizionali stili di vita diventano impraticabili. Il ghiaccio sempre più sottile rende pericolosi gli spostamenti, le specie animali dipendenti dalla copertura di ghiaccio marino migrano o periscono lasciando i cacciatori in difficoltà.
Aumentano gli incendi nelle foreste subartiche, il disgelo del permafrost indebolisce le infrastrutture. In poche parole, i limiti dell’adattamento in situ sono sempre più vicini.
La spinta fatale
Nel corso della loro storia millenaria, gli Inuit si sono adattati a significative variazioni del livello del mare. Secondo Hugh Brody, antropologo e socio onorario dello Scott Polar Research Institute, non è il trasferimento dalle coste in sé il problema. Se la cultura, la trasmissione di conoscenza e il legame con le risorse naturali fossero salde, le popolazioni indigene potrebbero adattarsi efficacemente.
“C’è una grande differenza tra spintonare qualcuno che si trova in un campo e spingere qualcuno che è sull’orlo di un precipizio”.
Forze colonialiste hanno eroso la terra sotto i piedi dei popoli indigeni dell’Artico, prima del cambiamento climatico. Il collasso dei tradizionali allevamenti di renne dei Sámi non è solo dovuto alle anomale precipitazioni autunnali che sigillano i licheni sotto uno strato di ghiaccio impenetrabile. Ma anche all’accaparramento delle terre.
Se gli obiettivi dell’Accordo di Parigi non verranno mantenuti, sempre più persone saranno costrette ad abbandonare le loro case, nell’Artico così come in America Latina, nel Sud-est asiatico e nell’Africa subsahariana. Contro ogni logica di giustizia, i primi a cadere saranno proprio quelli che già si trovano sull’orlo del precipizio.
Annalisa Gozzi
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