Alzi la mano chi non ha mai assaggiato le pregiate specialità ittiche del Nord Europa. Andiamo alla scoperta del mercato ittico islandese, con le nuove opportunità per le imprese italiane.
Gli stati artici, geograficamente distanti dall’Italia rappresentano un punto di riferimento per le imprese e le attività imprenditoriali del nostro Paese. Il “sistema Italia” – attraverso la sua rete di ambasciate e consolati – è impegnato a fornire pratici strumenti agli stakeholders che vogliono conoscere e investire nei mercati esteri.
All’interno di questo quadro si inserisce il progetto dell’Ambasciata italiana ad Oslo, (competente anche per l’Islanda), di far conoscere il settore ittico islandese alle imprese italiane. Italia e Islanda, anche se geograficamente lontane, condividono posizioni simili e hanno interessi affini nei confronti delle più importanti questioni internazionali.
Tradizionalmente i due Paesi hanno avuto sempre relazioni amichevoli, sono membri della NATO e delle numerose organizzazioni internazionali. I rapporti tra i due Stati si sviluppano sia da un punto di vista politico sia da un punto di vista economico.
La pesca è il secondo maggior settore economico dell’Isola, dopo il turismo. Con una popolazione di soli 360.000 abitanti, l’Islanda è un colosso mondiale della pesca con 1.5 milioni di tonnellate di pesce pescato nel corso del 2019 – il 23% dell’intero pescato dell’Unione Europea. La zona di pesca islandese copre un’area di 758.000 chilometri quadrati con una delle flotte di pescherecci più moderne al mondo.
Da un punto di vista politico, i rapporti bilaterali si sono intensificati tra il 2008 e il 2009, grazie alla visita a Roma del Ministro degli Esteri islandese Ingibjörg Sólrún Gísladóttir, ma si sono indeboliti a causa della crisi finanziaria che colpì il paese nel 2011.
A livello economico, Italia e Islanda sono impegnate a promuovere scambi commerciali bilaterali, con l’obiettivo di aumentare la crescita nazionale, mentre sul piano commerciale si registra un aumento importante dell’interscambio. Nel 2019 l’interscambio commerciale tra Italia e Islanda ha raggiunto i 119 milioni di euro con un saldo favorevole al nostro Paese di 95,7 milioni di euro. Saldo reso possibile grazie all’andamento delle esportazioni italiane.
L’export delle imprese italiane è caratterizzato da prodotti metallurgici, macchinari e apparecchiature, mezzi di trasporto, prodotti alimentari e articoli di abbigliamento. Viceversa, l’import dall’Islanda ha interessato manufatti metallurgici e prodotti ittici, ecco perché il mercato del pesce islandese potrebbe rappresentare una nuova frontiera per le imprese italiane.
Infine, la pandemia di Covid-19, non ha risparmiato nemmeno le esportazioni, che nel primo semestre 2020, sono calate dell’11,8%, passando così da 67 a 59 milioni di euro, così come le importazioni che sono scese a 6,8 milioni di euro. L’unica nota positiva è il saldo, che resta a favore dell’Italia (52 milioni di euro).
In un panorama internazionale in cui la pesca commerciale sta subendo un rallentamento, i mari islandesi continuano a registrare un trend crescente, portando il settore a un valore di 2 miliardi di dollari. La storia di questo settore risale al 1984, quando le istituzioni nazionali decisero che al posto di depredare le risorse marine avrebbero posto maggiore attenzione alle ricchezze ricavate dal mare. Dunque decisero, a seguito di diversi studi sulla fauna ittica e sui dati ricavati dalla pesca, di inserire un sistema di quote.
Negli anni Settanta la pesca commerciale, divenuta fortemente efficiente, creava però ingenti problemi all’ecosistema marino, il quale veniva danneggiato dalle reti a strascico dei pescatori. Perciò, per ripristinare lo status quo ante, venne incentivata la pesca con il palamito e le barche piccole.
Queste limitazioni condussero al sistema di pesca commerciale più sostenibile e di successo al mondo, ma non furono facili da far rispettare, soprattutto per le nazioni straniere (Danimarca, Germania, Inghilterra e Norvegia), che negli anni Settanta pescavano nelle vicinanze dell’Islanda.
Con l’obiettivo di tenere lontano dalle sue coste i pescherecci stranieri, il governo di Reykjavik estese le frontiere marittime a sei miglia dalla costa (in principio erano tre), poi lo estese a dodici miglia e infine a duecento miglia, ma il Regno Unito si rifiutò di riconoscere le nuove regolamentazioni. Quando i pescherecci britannici entrarono nelle acque islandesi, i pescatori e la guardia costiera risposero allo sgarro dando inizio alle “guerre del merluzzo”, ma alla fine l’Islanda vinse e le miglia riconosciute rimasero duecento.
Oggi, mentre il 60% delle riserve ittiche del pianeta sono considerate sfruttate o esaurite e tutti gli oceani del pianeta attraggono pescatori, l’Islanda rimane un luogo dove le risorse marine godono di buona salute e sono fortemente protette grazie al sistema legislativo.
Inoltre, risulta interessante vedere come l’Unione Europea corteggi regolarmente l’Islanda affinché entri nei trattati, per dare così la possibilità ai Paesi membri di accedere alle sue acque territoriali. Ogni volta la risposta degli abitanti è sempre stata negativa. Molti tentativi sono stati fatti per rivedere e migliorare il sistema delle quote, ma fino ad oggi non è stato trovato altro modo per proteggere e controllare il ripopolamento e le catture della fauna marina.
Le guerre del merluzzo sono state una serie di scontri tra Islanda e Regno Unito, e ogni volta fu l’Islanda a prevalere nei tre momenti di tensione (1958-1961, 1972-1973, 1975-1976). Ogni “conflitto” scoppiò a causa di un’estensione dei confini delle acque territoriali da parte islandese: nella prima le miglia furono spostate a dodici, nella seconda a cinquanta e nella terza a duecento.
Non furono scontri armati. Lle guerre consistevano perlopiù in speronamenti, urti e spari di avvertimento tra le navi della Landhelgisgæsla Íslands (la guardia costiera islandese) e la Royal Navy e in azioni di disturbo ai pescherecci britannici. Questi scontri provocarono grande imbarazzo nelle organizzazioni internazionali, come ad esempio la NATO, poiché entrambi gli Stati ne sono membri e l’Islanda ricopriva un ruolo strategico durante la Guerra Fredda.
Durante il secondo conflitto del merluzzo, quando la situazione era al punto massimo di tensione, l’Islanda minacciò di uscire dalla NATO, e fu solo l’intervento del Segretario di Stato americano Kissinger ad appianare la situazione e a far accettare ai britannici l’estensione delle miglia.
Fin dal passato, gli islandesi sono sempre riusciti a vivere grazie alla pesca del merluzzo, risorsa abbondante nei mari nazionali. La pesca di questo pesce è abbastanza facile, si muovono in banchi, lentamente. E nuotano quasi sempre a bocca aperta, utilizzando i vuoti di pressione per inghiottire qualsiasi cosa dal fondale marino.
I merluzzi preferiscono acque non molto profonde e vivono in mari che non arrivano alla profondità di cento metri. La carne del merluzzo è un cibo perfetto per l’uomo, priva di grassi e ricca di proteine. Possiamo dire che il merluzzo è fondamentale per l’isola, la quale non presenta grossi mammiferi da cacciare e ha un paesaggio vulcanico ostile all’agricoltura.
Grazie alla legge sulla gestione della pesca del 1990, l’Islanda ha messo in campo un sistema di gestione con quote individuali trasferibili (ITQ) basate sulle catture dei pescherecci durante un periodo di tre anni. A ogni peschereccio viene assegnata una percentuale permanente della quota, e il contingente di cattura annuale di un peschereccio viene pertanto determinato dal TAC per le specie interessate e dalla percentuale permanente del peschereccio rispetto al totale.
Per impedire l’ingiusto consolidamento dei diritti di pesca da parte di alcune imprese di pesca, sono stati fissati dei limiti per la detenzione di percentuali di quote dei principali stock ittici da parte di un’impresa di pesca o di un gruppo di imprese. Il limite massimo è del 12% per lo scorfano, del 20% per l’aringa e il capelin e del 20% per i gamberetti d’alto mare.
Un peschereccio può trasferire parte delle proprie quote da un anno all’altro, ma la quota viene persa se le catture sono inferiori al 50% della quota totale, misurata in “equivalenti merluzzo”, per due anni consecutivi. Esiste inoltre una norma secondo cui il trasferimento netto di quote da un peschereccio non deve superare il 50% in un anno.
Nella primavera del 2002, il parlamento islandese (Althing) ha approvato una legge che prevedeva l’introduzione nel 2004 di una tassazione sulla pesca, valutata sulla base dei diritti di cattura assegnati per la zona economica esclusiva islandese e le acque al di fuori di essa.
Le caratteristiche fondamentali del sistema di ITQ stabilito dalla legge sulla gestione della pesca possono essere sintetizzate in questo modo:
È stato recentemente pubblicato il nuovo e-book tematico sul tema, da parte dell’Ambasciata Italiana a Oslo. E proprio in questo periodo continua l’iniziativa della nostra missione diplomatica per offrire agli operatori economici e stakeholders efficaci strumenti per analizzare e conoscere questi mercati nordici.
L’Italia è presente in Islanda soprattutto sul lato investimenti, edilizia e import/export di prodotti ittici, appunto. Ma la crescita nazionale dell’isola e le sempre maggiori connessioni con l’Europa e con i mercati internazionali rendono il Paese artico un’opportunità ulteriore per le imprese italiane, anche sul turismo.
Andrea Delvescovo
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