Quinta puntata di “Bussola a Nord”, la rubrica di Federico Petroni su Osservatorio Artico. Nella nuova analisi scopriamo le novità statunitensi sulla regione, fra cui la possibilità che i Marines potrebbero sbarcare nell’Artico.
A caccia di sottomarini
I marines nell’Artico? Potrebbe non essere un’ipotesi di sceneggiatura di una serie tv. Nei prossimi anni (mesi?) gli Stati Uniti potrebbero schierare il loro leggendario corpo militare in Islanda, in Norvegia, persino in Groenlandia. O almeno così propone il comandante di questa branca delle Forze armate, il generale David Berger. In un articolo sulla rivista Proceedings, pubblicata dallo U.S. Naval Institute, Berger suggerisce di impiegare i marines per dare la caccia ai sottomarini russi.
Ma che cosa c’entra un reparto anfibio, pensato come unità da sbarco dall’acqua alla terra, con i sommergibili? Sembra controintuitivo: i Marines sono entrati nel mito conquistando isola dopo isola del Pacifico durante la guerra mondiale per far sloggiare i giapponesi. Ricordate la famosissima foto di Iwo Jima, con alcuni soldati che piantano la bandiera americana dopo aver cacciato i nipponici? Quello fanno i marines.
Sono un corpo d’assalto, non hanno sottomarini e non sono certo avvezzi a rincorrerli negli abissi. Fra l’altro negli ultimi anni si erano addestrati in Norvegia a combattere in situazioni gelide, con la neve, fra i ghiacci. “Gli insegniamo a sciare”, scherzavano i militari norvegesi.
A servizio della talassocrazia
Eppure, le intenzioni del generale Berger sono serissime. L’idea è aiutare gli Stati Uniti nella loro principale sfida geopolitica del nostro tempo: garantire il dominio dei mari. Per farlo, occorre che i rivali (Russia e Cina) restino chiusi nelle acque di casa. Impossibilitati a uscire negli oceani. A questo serve l’Artico agli americani: impedire ai russi di uscire. Che si tengano pure la supremazia al Polo Nord, ragionano gli strateghi statunitensi, l’importante è che non escano nell’Atlantico.
Nel concreto, questo significa tenere i russi a est di due linee fondamentali. La prima è quella fra Groenlandia, Islanda e Regno Unito (UK, da cui il nome Giuk gap). La seconda è quella fra Capo Nord in Norvegia e le Svalbard. Negli ultimi anni i militari americani sono tornati a frequentare queste acque, di fatto abbandonate dopo la guerra fredda. Solo nel 2020, la Marina ha pattugliato per ben tre volte il Mare di Barents, letteralmente la piscina di casa Putin.
Come possono aiutare i marines? Il comandante Berger propone di aprire delle basi avanzate in Islanda, Norvegia o Groenlandia. Non bisogna pensare a strutture gigantesche come Sigonella in Sicilia, ma a degli avamposti dove schierare batterie di missili antinave o antisottomarino, aerei da supporto ai velivoli spia in grado di individuare i sommergibili, apparecchiature per captare i segnali dei battelli russi. Insomma, costruire una vera e propria rete nel Mar di Norvegia.
Un passo verso il controllo militare
Non sarebbe una cosa da poco. Vorrebbe dire militarizzare ulteriormente l’Artico. Perché un conto è condurre pattugliamenti navali, schierare aerei spia, farsi passare informazioni dai norvegesi. Un altro è schierare missili nelle isole di quei mari.
Vorrebbe dire rimettere armamenti in grado di uccidere, di innescare una guerra in Islanda, dopo il ritiro del contingente sull’isola nel 2006. Vorrebbe dire stabilire quasi ufficialmente che la Groenlandia, formalmente appartenente alla Danimarca, è nella disponibilità degli americani, che ci farebbero quel che vogliono. Vorrebbe dire esigere dalla Norvegia una provocazione in più nei confronti della Russia, che negli ultimi anni si è lamentata dello slittamento di Oslo verso le richieste statunitensi.
Sarebbero sviluppi pienamente in linea con le tendenze degli ultimi anni, che hanno visto Washington riscoprire l’importanza strategica dell’Artico – non tanto per starci, per conquistarlo, quanto per neutralizzare le minacce provenienti da Nord, cosa che ridimensiona molto l’isteria mediatica che vede il Polo Nord come prossimo Far West per accaparrarsi le risorse.
Difficilmente però le nazioni interessate accetterebbero in assenza di una concreta minaccia. E sarebbe una provocazione smodata alla Russia. Ma sarebbe anche una soluzione piuttosto economica per gli americani, che hanno bisogno di liberare tutte le risorse possibili per la vera sfida: quella con la Cina nell’Indo-Pacifico.
Federico Petroni
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