Nel luogo più caratterizzato dall’acqua, l’acqua è spesso l’elemento che manca. Scopriamo il tema della scarsità di acqua potabile per i popoli della neve.
Qual è l’elemento che caratterizza l’Oceano Artico rispetto agli altri? Molte persone, secondo Robie Macdonald, esperto in geochimica marina dell’agenzia governativa Fisheries and Oceans Canada, risponderebbero che questo elemento è il ghiaccio. “Ma il ghiaccio Artico è come la mano destra del mago, quella che lui vuole si guardi. Le cose nascoste, che fanno funzionare il trucco, sono nella sua mano sinistra. Per l’Oceano Artico il segreto è l’acqua dolce”.
L’acqua rappresenta l’elemento essenziale sul quale si fonda la vita nell’Artico. Il bianco candido della calotta polare che custodisce l’acqua imbottigliata “più pura del mondo” sembra descrivere nel silenzio la storia di una terra remota e incontaminata.
Ma gli occhi della ricerca scientifica e le voci dei popoli artici raccontano una realtà diversa, nella quale “the purest water in the world” è solo un prodotto pubblicitario. Molti residenti del Circolo Polare Artico, dal Nord del Canada alla Siberia orientale, vivono senza sufficiente acqua potabile. Le risorse di acqua dolce del Polo Nord sono sempre più compromesse dal riscaldamento globale e dall’inquinamento di origine antropica, fenomeni alla base di una diffusa situazione di insicurezza idrica all’interno della regione artica.
La storia dei cacciatori di iceberg ci insegna che è possibile avere libero accesso a una fonte di acqua “pura”. Almeno così dovrebbe essere. Molte compagnie produttrici insistono sulla scrupolosità nella ricerca degli iceberg più “isolati”, altre raccontano che per staccare i blocchi da un ghiacciaio utilizzano musica ad alto volume (un “toccasana” per la fauna locale abituata al silenzio, immaginiamo).
Altre ancora, celebrando “inconsapevolmente” il global warming, spiegano che “the presence of ancient air bubbles, which make a crackling sound as they melt, is a key sign that the right pre-industrial era iceberg has been found”. Tanta accuratezza nella descrizione del processo di raccolta di acqua – oltre ad essere un escamotage ben congegnato per indurre all’acquisto di un prodotto selezionato e unico al mondo – potrebbe far pensare che la serietà dell’azienda giochi sull’attenzione riposta nella scelta dell’iceberg.
Ad esempio, sul sito della compagnia “Aquamaestro”, che si occupa della distribuzione di acqua imbottigliata made in USA, hanno tenuto a precisare che c’è una sostanziale differenza tra l’acqua di un ghiacciaio e quella di un iceberg: quella proveniente dal primo, sciogliendosi, entra in contatto con la terra. L’altra, invece, fluttuante per l’oceano, non è esposta ai “ground contaminants”.
Inoltre, una rapida ricerca su Internet consente di scoprire che l’acqua degli iceberg è potabile ma solo “after you killed any germs”. Ma esiste allora l'”acqua l’acqua più pura del mondo”? No. Almeno al Circolo Polare Artico, non esiste acqua pura. E i popoli artici lo sanno molto bene.
Gli Inuit hanno circa 200 parole per indicare il ghiaccio o la neve a seconda delle condizioni nelle quali essi si trovano. Dalla parola “siku” (ghiaccio) derivano, ad esempio, le parole “sikuaq” (la lastra sottile che si forma sugli stagni in autunno) e “sikuliaq” (il nuovo ghiaccio che si forma sul mare o sulle rocce).
Dall’altra parte del Circolo polare Artico, anche i Sami difendono questo singolare “primato linguistico”, avendo circa 180 parole per descrivere la neve. Il termine “Skava” si riferisce allo strato sottile di neve ghiacciata, mentre il suo derivato “Skavvi” indica lo strato di ghiaccio che si forma sulla neve di sera dopo essere stato sciolto durante il giorno dal sole.
La lista di parole dei diversi linguaggi polari sarebbe ancora molto lunga. Questo aiuta a comprendere quanto l’acqua sia l’elemento che non solo circonda, ma dal quale dipende la vita in Artico. Il legame che unisce i popoli del Circolo polare Artico a tale elemento è sacro: l’acqua è considerata come il “sangue” della Madre Terra dal quale origina ogni forma di vita.
Per queste persone le attività di caccia e pesca, i trasporti, le reti relazionali e la spiritualità sono strettamente connesse alla conoscenza individuale o collettiva dell’acqua. Conoscere il comportamento dell’acqua è infatti fondamentale per vivere, e sebbene la regione ne sia ampiamente provvista, bere in Artico può essere molto complesso.
La prima sfida che si pone è quella relativa alla disponibilità di una fonte. Questa prima “water challenge” dipende dalla stagione. Anna Nadolna, ingegnere alla Polish Polar Station di Hornsund (Groenlandia), spiega che l’accesso a fonti di acqua dolce è molto problematico di inverno, quando la temperatura esterna ghiaccia le riserve disponibili.
Il terreno ricoperto dal permafrost non consente di attingere a fonti sotterranee. Pertanto, l’approvvigionamento può dipendere esclusivamente dalla capienza dei “reservoirs” che molto spesso non è sufficiente a coprire le esigenze degli abitanti.
L’accesso all’acqua risulta ovviamente più semplice nel periodo estivo, quando l’acqua può essere pompata direttamente alla sorgente, sempre con l’ausilio di impianti di depurazione. Ma anche la stagione del “melting ice” può riservare “sorprese”, poiché a causa del riscaldamento globale che sta colpendo duramente l’Artico, molto spesso le risorse naturali di acqua sono secche.
Ma, allora, non sarebbe più semplice bere la neve? Gli ingegneri del Polish Polar Station di Hornsund – così come gli abitanti delle città artiche – sono di frequente costretti a raccogliere la neve, quando le rigide temperature privano dell’acqua. Ma la neve raccolta non può subito servire per uso domestico.
Senza impianti di raccolta e depurazione, la neve sciolta deve prima essere bollita. Gli Inuit dicono «Don’t eat snow if you are thirsty». Infatti, bere direttamente quell’acqua significa esporsi a ipotermia e malattie intestinali o extra-intestinali connesse all’ingerimento di batteri e contaminanti presenti nella neve a contatto con il suolo.
La disponibilità di acqua potabile rappresenta una difficoltà di “routine” per gli abitanti del Circolo Polare Artico. Vivere ad alte latitudini mette alla prova il loro spirito di sopravvivenza, ma questi popoli hanno saputo adattarsi alle impervie realtà del clima tramandandosi le conoscenze necessarie per essere parte di un ambiente tanto particolare come quello dell’Artico.
L’eredità culturale non è però l’unica forma di adattamento a un ambiente così indomito. Tutte le nazioni circum-artiche sono oggi dotate di linee guida per l’approvvigionamento dell’acqua, per i servizi igienico-sanitari e per la gestione delle acque reflue.
Ma la Arctic Water Strategy non è molto produttiva. Sebbene le città polari siano dotate di infrastrutture volte a garantire a tutti gli abitanti accesso ad acqua filtrata e purificata, la mancanza di tecnologie standardizzate per l’approvvigionamento e trattamento dell’acqua può vanificare l’impermeabilità dei piani idrici locali.
E se ai problemi locali di gestione idrica si aggiungono “pressioni esterne”, trovare acqua potabile in Artico diventa ancora più complesso. Alla base del degradamento e della scarsità delle risorse idriche del Circolo Polare Artico ci sono, infatti, il riscaldamento globale e l’inquinamento antropico, environmental stressors che vengono, più o meno, da lontano e che minacciano la vita degli abitanti.
Il riscaldamento globale impatta principalmente sulla disponibilità delle riserve naturali di acqua dolce della tundra. L’alternanza di estati secche ed inverni poco piovosi contribuisce all’inaridimento del paesaggio nel quale, di frequente, è possibile assistere alla drastica riduzione o anche evaporazione di laghi e interi corsi d’acqua.
La capitale del Nunavut, Iqaluit, ha sperimentato negli ultimi anni intensi periodi di crisi idrica legati all’impoverimento della principale risorsa della regione, il lago Geraldine. Dopo la rigidità dell’inverno e le scarse precipitazioni, il caldo anomalo dei mesi estivi ha portato ad un abbassamento del livello dell’acqua di almeno due metri (ultimo dato aggiornato al 2018).
In generale, le riserve di acqua dolce polari sono sottoposte a ciò che potrebbe definirsi come “doppio carico”del riscaldamento globale: se da un lato l’incremento di temperatura fomenta il fenomeno dell’evaporazione delle risorse, dall’altro dà origine a nuove fonti idriche derivate dallo scioglimento del permafrost, due situazioni che riducono notevolmente la qualità dell’ambiente.
Il disgelo del permafrost che copre i bacini idrologici può minacciare l’esistenza delle risorse idriche in esso presenti. L’aumento di temperatura può creare delle insenature nel permafrost riuscendo, così, a far defluire l’acqua nel sottosuolo. Ma la degradazione del suolo ghiacciato può anche rilasciare in acqua molto carbonio che, assorbendo la luce solare, può danneggiare la crescita di microrganismi alla base della catena trofica artica.
Il bacino idrologico del lago Bajkal, la più grande e profonda riserva di acqua dolce del Pianeta, è ricoperto quasi interamente dal permafrost, e il suo scioglimento sta provocando cambiamenti nelle condizioni eco-sistemiche e idrologiche. Le temperature più alte dell’acqua del Bajkal ed il rilascio di sostanze nutrienti presenti nel permafrost “scongelato”, ad esempio, hanno impattato sulla distribuzione e crescita del plancton minacciato dalla proliferazione di alghe.
Il disgelo del permafrost può portare alla proliferazione di nuove riserve d’acqua. I laghi termocarsici sono un fenomeno divenuto ormai frequente in Artico. Ma questi bacini di ghiaccio sciolto disseminati nella tundra, soprattutto in quella siberiana, non rappresentano una fonte di approvvigionamento di acqua dolce. L’alto livello di anidride carbonica e metano che fa “borbottare” questi bacini e che viene rilasciato in atmosfera, di certo non rende queste nuove risorse potabili.
La qualità dell’acqua dolce rappresenta un indicatore utile a inquadrare lo stato di insicurezza idrica di cui soffrono i popoli della neve. Sebbene il riscaldamento globale possa minare non solo la quantità, ma anche la qualità delle riserve idriche artiche attraverso il rilascio delle sostanze “dormienti” del permafrost, il degrado che colpisce la purezza dell’acqua è causato anche dall’inquinamento antropico.
Ma come può un luogo tanto remoto come l’Artico essere inquinato? Molti studi scientifici hanno provato a rispondere a questa domanda e nonostante la maggior parte delle ricerche sia ormai risalente nel tempo, due sono i punti fermi sull’argomento. I metalli pesanti sono gli inquinanti più diffusi nelle riserve di acqua dolce, soprattutto il mercurio.
Il mercurio, come gli altri metalli pesanti (piombo, cadmio), riesce ad arrivare in Artico almeno in due modi: per via aerea o attraverso i corsi d’acqua. Le emissioni di combustione fossile provenienti dalle attività delle industrie stanziate in Eurasia e nel Nord America, come quelle metallurgiche, quelle di produzione di cemento e di incenerimento dei rifiuti, rilasciano nell’aria, tra i vari inquinanti, il mercurio. Questo metallo compie il suo viaggio al Circolo Polare Artico mosso dalle correnti.
Quando raggiunge alte latitudini, il mercurio si imbatte in temperature più fredde che ne provocano prima il rallentamento e poi la caduta sul suolo, dove contamina neve, permafrost e ghiaccio o direttamente le acque dei laghi. Anche il trasporto di mercurio attraverso i fiumi può impattare direttamente le riserve di acqua dolce.
Ma in questo caso il suo percorso è più breve. La contaminazione avviene all’interno del Circolo polare Artico direttamente dalle miniere d’oro o di altri materiali preziosi presenti sul suo vasto territorio e dallo scarico delle acque reflue non trattate provenienti dagli ambienti industriali o domestici di quelle regioni, come il Nunavut, nelle quali la qualità della rete fognaria e dei servizi igienici è scarsa.
Il mercurio e altri metalli pesanti altamente inquinanti come il tallio sono impiegati anche nelle miniere di diamanti, un business non poco frequente al Circolo Polare Artico. First Nations canadesi e Yakutia raccontano una storia simile.
La Repubblica di Sakha, conosciuta anche come Yakutia, si estende su un territorio che si trova per il 40% nel Circolo Polare Artico ed è ricco di kimberlite, una roccia porosa dal contenuto prezioso: diamanti naturali. Circa un quarto dei diamanti venduti nel Mondo proviene da questa regione della Siberia orientale.
Il costo ambientale di questi beni di lusso è ben più elevato del loro valore economico. L’estrazione dei diamanti ha comportato, nel tempo, la degradazione del fiume Vyliuli unica risorsa idrica per gli abitanti di quest’area. Le acque reflue delle miniere vengono riversate direttamente nel fiume compromettendone l’ecosistema e la potabilità. Questi scarichi sono infatti pieni di tallio, un materiale tossico utilizzato per separare i grani di diamante dalla kimberlite.
Nonostante i ripetuti appelli locali di evitare l’uso dell’acqua proveniente dal Vyliuli e dai suoi affluenti, l’approvvigionamento per uso domestico continua. Quest’acqua non trattata arriva direttamente nelle case in camion cisterna e, di fatto, danneggia la salute dei residenti. I dati sulle condizioni ambientali della Yakutia non sono aggiornati, e inoltre la scarsa documentazione non consente di riportare con esattezza la serietà di insicurezza idrica sofferta nella regione.
Tuttavia, nel 2019 la compagnia Alrosa è stata condannata dalla Corte Arbitrale locale al risarcimento di 50,000 rubli ai residenti per l’inquinamento del fiume Irelyak affluente del Vilyuli causata dal cedimento della diga costruita per contenere gli scarichi della cava.
Dall’altro lato del Polo Nord, la compagnia De Beers – prima ad aver avviato l’estrazione di diamanti nel Canada del Nord – è stata giudicata colpevole dalla Corte locale per non aver monitorato e documentato i livelli di mercurio nelle insenature del fiume Attawapiskat, responsabili della degradazione dell’ecosistema idrico e della qualità dell’acqua dell’omonimo lago, unica risorsa per le popolazioni residenti nell’area di Neskantaga.
I popoli artici “pagano il prezzo” dell’inquinamento prodotto dagli altri. Sebbene i popoli della neve vivano “isolati” e soprattutto non siano i maggiori produttori delle attività inquinanti che contaminano le risorse idriche artiche, sono loro a pagare le irresponsabilità o le scelte altrui. L’uso di acqua contaminata impatta enormemente sulla salute e sullo stile di vita delle persone che vivono al Circolo Polare Artico.
Un’indagine condotta dall’Arctic Council’s Sustainable Development Working Group, pubblicata nel 2018, rivela infatti che le condizioni dell’acqua e dei servizi igienici (WASH services) sono inadeguate soprattutto nelle comunità del Canada del Nord in alcune aree rurali della Groenlandia e dell’Alaska. Risorse e infrastrutture idriche di queste zone geografiche sono, secondo le testimonianze degli intervistati, incapaci di fornire standard dignitosi di vita, compromettendo la salute pubblica.
Il problema delle città artiche che soffrono di insicurezza idrica, come Iqaluit, Neskantaga o Mirny non è solo la scarsa qualità dell’acqua, ma anche l’arretratezza degli impianti di filtraggio e distribuzione, l’inadeguatezza dei servizi igienici spesso costituiti da un semplice “honey bucket” (un cestino giallo che funge da toilette in molte case), l’inesistenza delle reti fognarie. Mancanza che costringe i residenti a disperdere le acque reflue direttamente nell’ambiente.
Ma l’indagine mette in evidenza anche le conseguenze che la qualità dell’acqua e scarse condizioni di igiene possono avere sulla salute pubblica. L’ingerimento dell’acqua contaminata da metalli pesanti può provocare infezioni come il colera o patologie gastrointestinali. Mentre usare i servizi igienici per la pulizia personale può portare alla diffusione di malattie trasmissibili come quelle della pelle o quelle, ben più gravi, soprattutto in questo momento, del tratto respiratorio. Per arginare la diffusione di queste malattie, come sappiamo, l’uso dell’acqua per lavare le mani è fondamentale.
L’accesso all’acqua pulita e alle strutture igienico-sanitarie costituisce un diritto umano fondamentale cesellato dall’obiettivo di sviluppo sostenibile n. 6 e dai suoi 8 target. Stabiliti nel 2015 dall’Assemblea Generale dell’ONU, i diciassette Sustainable Development Goals rappresentano parametri per garantire uno sviluppo possibile ed equilibrato dove nessuno viene lasciato indietro, nemmeno chi ha deciso di condurre la sua vita nelle terre forse più inospitali e remote del Mondo.
Il degrado delle risorse idriche, determinato dal riscaldamento globale e dalle attività minerarie, colpisce duramente la vita di queste persone, inficiandone stile di vita e alimentazione. La questione relativa alla sicurezza alimentare non è un ambito di scarsa importanza nell’analisi dell’impatto che cambiamenti climatici e inquinamento antropico stanno avendo sulla regione artica. Tuttavia, considerazioni sulla contaminazione del cibo artico richiedono necessariamente che si inizi dall’acqua e dalla sua degradazione.
La ragione è semplice. L’acqua e il ghiaccio sono per l’Artico ciò che in altre aree del Mondo rappresentano il terreno e l’erba: le basi per la vita. La contaminazione del cibo parte dall’inquinamento dell’acqua: dalle fonti di acqua il veleno prodotto dagli inquinanti risale la catena alimentare ed arriva all’uomo. Ma, come scriveva Michael Ende, autore de “La storia infinita”, “that’s another story and shall be told another time”.
Anna Chiara Iovane
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