L’intervista a Elena Mazzi, artista e ricercatrice da anni focalizzata sulla trasformazione della regione artica, tra economia, società e cultura.
“Frequento i Paesi Nordici dai tempi dei miei studi universitari. Mi sono sempre interrogata su come i Paesi che focalizzano la loro sensibilità e rappresentazione su tematiche ambientali, sostenibili, ‘green’, si confrontino con l’idea di produzione e progresso. Come si può essere all’avanguardia su comunicazione, trasporti, economia locale e globale e allo stesso tempo non impattare sull’ambiente in cui viviamo?
La risposta è che la narrazione non è sempre così lineare e corretta: ci sono molte zone grigie e d’ombra alla base di una presentazione impeccabile della propria nazione. La Via Polare della Seta, su cui faccio ricerca dal 2018, è una di queste; sovrapponendo il progresso al processo di green transition, si dà vita a nuovi accordi internazionali che di sostenibile hanno ben poco.
Tra questi, l’idea di aprire una nuova rotta commerciale tra Europa del Nord e Cina, traendo vantaggio dallo scioglimento dei ghiacci nell’Artico, ed evitando il passaggio dal Canale di Suez. Facilitando la rotta, i minerali e gli elementi estratti tra Groenlandia, Norvegia e Svezia potranno essere direttamente lavorati e processati in Cina, minando l’equilibrio di territori fragili abitati dalle comunità indigene di Sami e Inuit nel nome della cosiddetta “transizione verde”.
La terra, gli animali e le persone però continueranno a soffrire e probabilmente soffriranno più di prima. Per questo negli ultimi 6 anni di ricerca in queste aree del mondo ho ascoltato testimonianze di diverse comunità locali, di ricercatori, di giornalisti, e anche di chi in questo progetto ci crede tanto da dare il proprio contributo a livello politico, gestionale e progettuale. È un tema complesso per cui ho ancora bisogno di fare ricerca in loco: il dottorato che porto avanti presso Villa Arson a Nizza sta seguendo questa direzione”.
“Ho visitato l’area intorno a Kiruna per la prima volta nel 2011. Come per la vicina Malmberget, si parlava già di ‘spostare’ la città costruita a fine ‘800 per i lavoratori della miniera, al fine di fare spazio all’espansione della miniera, ma non credevo sarebbe successo davvero, e non in così poco tempo. Sono tornata nel 2022 e poi nel 2024, dove ho visto la città nuova prendere forma.
Oggi municipio, centri commerciali, hotel, scuole e abitazioni sono pronte. Lo spostamento della città è stato accelerato dal peggioramento dello stato strutturale del suolo. Kiruna implode su se stessa a causa dell’incessante allargamento della miniera, che prosegue senza tregua, giorno dopo giorno, o meglio, notte dopo notte. Quotidianamente infatti, alle 01.15 di mattina viene esplosa dinamite in diversi punti del sottosuolo, al fine di allargare la miniera e continuare il processo di green transition, di cui gli svedesi si sentono paladini. Come recita la guida che ogni giorno porta gruppi di turisti a visitare l’entroterra della miniera (completa di ristorante, showroom e cinema):
“Ogni passo è fatto con cognizione di causa, i lavoratori sono felici e ben retribuiti, i mezzi che operano all’interno della miniera sono quasi tutti elettrici”.
Nel frattempo, il tessuto sociale di Kiruna si sgretola: le comunità Sami denunciano problematiche relative alla qualità e all’utilizzo del suolo pubblico, alla transumanza delle renne, e l’intera popolazione soffre la perdita delle proprie case, smantellate in poco tempo con offerte poco vantaggiose per gli abitanti a favore di LKAB, la compagnia mineraria, che, essendo committente dell’intera operazione, ha sempre il coltello dalla parte del manico.
La discussione si è fatta più accesa nell’ultimo anno, in cui è stato pianificato lo spostamento della chiesa principale di Kiruna, di fondamentale importanza per il patrimonio storico-artistico nazionale così come per la popolazione Sami, sia per le caratteristiche architettoniche, che riprendono la forma delle tende indigene, sia per il luogo sul quale è stata costruita, di alto valore simbolico. LKAB non ha minimamente ascoltato la cittadinanza nel processo di movimentazione dell’intera città, e ora la comunità locale inizia a sollevare dubbi ed a contestare l’operato dell’azienda privata”.
“In Groenlandia mi interessa visitare Narsaq, in particolare la miniera di Kvanefjeld, nella zona sud-est del Paese. Kvanefjeld è un caso studio particolare: per anni si è tentato di aprire la miniera, inizialmente per la scoperta di uranio e in seguito per quella di terre rare. Si dice che sia il secondo più grande deposito al mondo di ossidi di terre rare e il sesto più grande deposito di uranio.
A causa dello scioglimento dei ghiacci, le aziende internazionali sono diventate sempre più interessate alle ricche risorse minerarie della Groenlandia, rendendola un obiettivo primario per l’attività mineraria. Le aziende cinesi, con Green Minerals in prima linea, sono focalizzate in particolare sull’approvvigionamento di materiali di terre rare necessari per la realizzazione dei motori di veicoli elettrici e la transizione energetica verde, con piani per la lavorazione e il commercio di questi materiali lungo l’emergente Via Polare della Seta.
I residenti di Narsaq, la città più vicina al progetto Green Minerals, hanno espresso preoccupazione per il potenziale impatto dell’attività mineraria e per il rischio di polvere radioattiva nell’area. L’attivista Mariane Paviasen ha dichiarato: “La comunità, che già soffre gli effetti del cambiamento climatico, non vuole sopportare ulteriori sfide affinché il resto del mondo possa guidare auto elettriche”.
Basandosi su precedenti ricerche del giornalista italiano Marzio Mian e del geologo francese Robin Marchand, tra gli altri, trascorrerò due settimane a Narsaq e Nuuk nel corso del 2025, incontrando i residenti locali e collaborando con l’Istituto delle risorse naturali della Groenlandia, l’Università della Groenlandia e il Progetto Ileqqussaasut sullo sviluppo di quadri etici per la ricerca responsabile e centrata sulla cultura in Groenlandia”.
“Certamente. È proprio questo che ha contribuito a considerare quelle zone isolate, lontane, al di là degli interessi economici e commerciali internazionali. Ma ora che le risorse di tutto il mondo iniziano a esaurirsi e che i ghiacci si sciolgono, le aree remote dell’Artico diventano appetibili, accessibili, disponibili alla riconfigurazione di trattati internazionali, dove logiche centenarie iniziano a crollare, e dove ci si rende conto che anche li ci sono terre da sfruttare, indigeni da corrompere, mondi da riformulare.
Ci sembrava tutto così lontano, più lontano della foresta Amazzonica, delle aree remote dell’Australia, ma non è così. Si parla di decolonizzazione verso il Sud del Mondo, e poi si reiterano le stesse dinamiche nel Grande Nord, che oggi diventa il nuovo grande Sud. Ogni passo in questa direzione coinvolge ognuno di noi, ed è per questo che dovremmo prestare attenzione, informarci e denunciare quanto sta accadendo”.
Leonardo Parigi
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