Alaska

Infrastrutture nell’Artico, quanto costa lo sviluppo?

Se bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno, forse i danni alle infrastrutture primarie sono spese necessarie per raggiungere nuovi giacimenti. Il costo delle infrastrutture nell’Artico cozza con il futuro interesse economico. È davvero possibile che il 25% delle riserve di petrolio e gas del territorio diventeranno risorse utilizzabili, ma a quale costo?

 

Il costo del cambiamento climatico

Molte ricerche stimano i danni sulle infrastrutture primarie di quest’area: porti, aeroporti, strade, autostrade, ferrovie, abitazioni private e aziende di ogni grandezza. I risultati sono degni di nota. Il permafrost ha le caratteristiche di una base di ghiaccio perenne, su cui sono state progettate le strutture di queste costruzioni, ma è per sua stessa natura soggetto allo scioglimento. 

Le infrastrutture presenti in tutta la regione polare – dalle coste russe a quelle settentrionali del Canada – sono costruite e ancorate a esso, e così anche tecnologie sofisticate, essenziali e costose, che permettono di mantenere la temperatura della superficie costante. 

La temperatura del nostro pianeta aumenta senza sosta dal 1980, e ampie porzioni di territorio regionale, come l’Alaska, il Canada e la Siberia, hanno già risentito dei danni irreparabili al terreno. L’EPA (US Environmental Protection Agency) ha implementato modelli economici utili a calcolare l’impatto dei rischi specifici con approcci GIS, cioè tramite sistemi di informazioni geografiche e di rilevamento satellitare.

Le infrastrutture primarie, studiate in queste ricerche, sono suddivise in lineari (ferrovie, pipelines, strade e autostrade) o puntuali (aeroporti, porti e costruzioni), e i dati utilizzati sono per la maggior parte governativi e pubblici. Secondo l’OCSE ( Organizzazione economica per la cooperazione e lo sviluppo) i danni ammonterebbero a 146 miliardi di dollari e rappresentano il 90% degli asset infrastrutturali di Russia, Norvegia, Canada e Alaska. 

Ovviamente le percentuali variano da Paese a Paese, ma in particolare è la Norvegia a essere lo Stato più colpito. Anche se le sue strutture sono ancorate soprattutto al permafrost discontinuo e più roccioso, che risente di meno dello scioglimento, in Russia il danno rappresenta il 70% del valore delle infrastrutture. Le quali, per la maggior parte, rischiano di essere irrimediabilmente compromesse. 

 

Porti, strade e pipeline alla prova del permafrost

Stando al rapporto, i costi per le infrastrutture ammonterebbero all’81% del valore complessivo di strade e autostrade in Islanda, per il 68% in Finlandia, per il 37% in Canada e per una quota compresa tra il 10 e il 17% per Russa, Alaska e Svezia. In Russia, però, le pipeline di gas e petrolio potrebbero essere compromesse per il 64% del loro valore attuale.

Stando poi al rapporto dell’Unione Europea sulle infrastrutture sensibili, i modelli stimano un aumento della temperatura nella regione di circa 3,6° tra il 2050 e il 2059. Tutti i modelli concordano che tale aumento toccherà sopratutto le regioni interne della Siberia, il Canada settentrionale e l’Alaska centrale e settentrionale. Le piogge aumenteranno in media di 72 mm/annui, in particolare nel settore pacifico: Chukotka, Alaska e Yukon.

Dove il permafrost ha mantenuto le sue condizioni naturali, quindi con vegetazione e neve integra, tale aumento sarà minore, mentre proprio sotto le fondamenta delle strutture, dove il terreno non è più al suo stato naturale, si assume che l’aumento sarà di 3,8° C in media tra i modelli. Tutti i modelli prevedono che l’aumento più considerevole avverrà nell’alto Artico, dove il permafrost è continuo, rispetto alle zone subartiche.

La capacità di resistenza o portante del permafrost diminuirà dal 69 al 41%, in special modo nella parte meridionale della permafrost zone ( Yukon, Yamal-Nenets e Siberia meridionale). Addirittura nelle zone in cui il permafrost è solo superficiale, molto probabilmente si scioglierà completamente. I costi di sostituzione e mantenimento delle infrastrutture artiche sono circa 15 miliardi e 470 milioni di dollari nel decennio 2050-2059, spesi in particolare per le pipeline (60%), per strade, ferrovie, porti e aeroporti.

Ma in molti casi, tali cifre sono sottostimate perché mancano le valutazioni di altri stressor ambientali, come l’erosione delle coste per i porti – collegata in maniera diretta con lo scioglimento del permafrost e l’aumento della temperatura. Il 43% della spesa rilevata verrà sostenuto dalla Russia per mitigare gli impatti, circa 6 miliardi e 630 milioni di dollari entro il 2059, un +27,5% delle spese previste dal Paese per le infrastrutture studiate.

Segue il Canada con 4 miliardi e 330 milioni di $, + 33,6% della spesa prevista. Solo il 26% degli aeroporti sono stati progettati per resistere ai danni dovuti ai cambiamenti climatici. In Russia sono le costruzioni abitative e non ( in inglese la parola “buildings” viene tradotta come costruzioni ma non intende solo case ma anche ospedali, scuole, negozi, aziende, etc. ) ad essere ad alto rischio, mentre in America Settentrionale soprattutto strade e aeroporti. Le regioni più impattate aranno la Sakha Republic, Alaska, Yukon, i territorio nord occidentali, il Krasnoyarsk Kray, e lo Yamal-Nenets.

Per lo Yukon, i costi direttamente attribuibili ai cambiamenti climatici di sostituzione delle infrastrutture  rappresentano il 3,7% del PRL (Prodotto Regionale Lordo). Quello che andrebbe sottolineato, fermo restando queste cifre che oscillano a seconda dei modelli e degli input inseriti all’interno delle analisi, è che si ragiona su strutture e infrastrutture vitali per un Paese sia a livello sociale che economico.

 

Il gioco vale la candela?

Le regioni artiche con limitate risorse ambientali, differenti dai giacimenti, sapranno utilizzare i profitti derivanti da petrolio e gas per mantenere o migliorare le loro economie, ivi comprese le infrastrutture primarie? Consideriamo che dovranno essere sostituite o ricostruite con tecnologie che possano difendersi dai fenomeni derivanti dai cambiamenti climatici. 

Guardando anche a questo aspetto, lo sviluppo economico per le eventuali ricchezze che risiedono nel sottosuolo o offshore potrebbero anche non bastare, rispetto ai costi vivi che dovranno essere sostenuti nella regione. In particolare, tali profitti verranno investiti in questi territori ai confini del mondo?

Inoltre, se a prima vista, le cifre non sono poi così considerevoli, le regioni citate come lo Yukon hanno alti costi pubblici e bassi margini di profitto dalle loro attività economiche. Ad esempio, i costi da cambiamento climatico rappresentano 1/3 dei ricavi provenienti dalle attività minerarie, e in Alaska si spende più per le politiche di mitigazione che per l’assistenza pubblica. Nel 2016 il 6% del budget governativo russo è stato speso per i danni causati dai cambiamenti climatici.

Molto probabilmente per i prossimi anni i giacimenti di petrolio e gas rappresenteranno ancora la fonte energetica più importante e più utilizzata al mondo, ma proprio perché gli investimenti economici di tutti gli Stati virano verso fonti rinnovabili e green, ne sarà valsa davvero la pena? Il rischio è trovare la pentola piena di monete d’oro e scoprire che sono di cioccolato e che il risultato non è valso la fatica.

(Fonte: “Valutazione del costo degli impatti dei cambiamenti climatici sulle infrastrutture critiche nell’Artico circumpolare”; Suter L. et al.,2019)

Giorgia De Angelis

Osservatorio Artico @ Tutti i diritti riservati

Leonardo Parigi

Sono Laureato in Scienze Politiche Internazionali all’Università di Genova e di Pavia. Sono giornalista pubblicista, e collaboro con testate nazionali sui temi di logistica, trasporti, portualità e politica internazionale.

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