Meno miglia nautiche non si traducono in vero risparmio se al ritorno le navi viaggiano vuote: il dilemma logistico di un Artico spopolato, con le incognite della Polar Silk Road. E gli USA non staranno a guardare.
Nell’immaginario collettivo, l’Artico è un luogo che rasenta la mitologia nordica. Generazioni di esploratori hanno applicato le scoperte settecentesche della scienza della navigazione alle latitudini più estreme. Il senso dell’Ignoto, l’Esplorazione e la Conquista hanno segnato la mentalità dell’Occidentis Christiani hominis, dominatori della Terra e del Creato:
Genesi 1, 26. Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla Terra».
Il superamento del limite ha contraddistinto un’etnia in specifico, il caucasico, che abbiamo l’abitudine storica di appellare come “uomo bianco”. Quasi duemila anni di pulpito lo hanno convinto di essere legittimato ad appropriarsi di ogni lembo di Terra esplorato, e dunque occupato, acquisito. Il conseguimento della Frontiera, l’assoggettamento del Futuro era già iscritto e giustificato nel primo capitolo del Libro.
Così, appena la tecnologia nautica ha permesso di solcare rotte mai registrate prima, gli esploratori europei hanno tentato la traversata della Rotta a Nord Ovest (da Giovanni Caboto al mitico Roald Amundsen) e quelli anseatici ad avventurarsi in quella a Nord Est. Gli italiani hanno prediletto cimentarsi verso l’ignoto Nord (Umberto Nobile e Duca degli Abruzzi). Comun denominatore: cristiani dominatori.
E i russi, ci domandiamo, a buona ragione? Beh, non dovevano avere un forte appeal per i propri mari freddi se Willem Barents era un olandese – scopritore delle Spitzbergen e omonimo del famoso Mare – e Vitus Johansen Bering era un ufficiale della marina danese assoldato da Pietro il Grande.
Cosa accade oggi? L’Artico si sta sciogliendo, dischiudendo alla Russia l’opportunità sia di avere accesso ad un agognato mare caldo tutto suo (il Mediterraneo è affollato, Il Mar Nero limitato dai turchi, il Caspio ontologicamente chiuso, il Pacifico è di USPACOM), finalmente, sia ad una futuribile e appetibile via commerciale tra Oriente ed Europa.
L’immaginario di pletore di penne della Geopolitica scorre in un fiume di previsioni che paventano di un nuovo flusso della Globalizzazione che fenderà una rotta polare, alternativa non solo a quella calda da Taiwan a Gibilterra, ma anche a un percorso che esula dalla talassocrazia statunitense. Detta in tal modo, pare un cambiamento non indifferente nelle movimentazioni mercantili mondiali. Ma è veramente così?
Giunge d’aiuto un sotto-settore della disciplina economica quale è la Logistica. Questa ci riporta alla dinamica dei “Trade in/balances”, gli sbilanci e i bilanciamenti commerciali. Teoricamente, i flussi nei trasporti sono ottimali se i traffici tra due punti di partenza e destinazione hanno un equivalente volume di scambio: A esporta 100 verso B e importa 100 da B.
Qual è la situazione tra A-Estremo Oriente (cioè Cina, che detiene il 29/30% della manifattura mondiale) e B-Europa? Nel 2019, ultimo anno “normale” pre-Covid, merci per un valore di 362 miliardi di dollari sono approdate nel Vecchio Continente da Levante, e solo 198 hanno seguito il percorso inverso: tradotto, esiste uno sbilancio commerciale.
Teoricamente significa, semplificando, che ogni 4 navi giunte in Europa dalla Cina, due sole ritornano piene nei porti del Dragone. E due vuote. Come diventa sostenibile tale situazione per le compagnie armatoriali? Beneficiando di scali intermedi tra Mediterraneo, penisola arabica, India, Indocina e Indonesia, ove riempire le “due navi vuote”.
Parliamo di ben tre, quattro miliardi di consumatori interposti tra le maggiori città portuali europee (Rotterdam, Anversa, Amburgo e Brema) e quelle asiatiche (ben sette tra le prime dieci al mondo erano cinesi già nel 2017). Sia all’andata che al ritorno.
Alla luce di ciò, qual è la prospettiva logistico-commerciale per la Rotta a Nord Est? Assai desolante. La costa a settentrione della Russia è scarsamente popolata, dunque non è appetibile per scali intermedi. Un porto deve la sua profittabilità al livello quantitativo di hinterland che va a servire. E, in caso, le vie di comunicazione interne sarebbero soggette alla spada di Damocle di un permafrost in disgelo e inaffidabile per qualsiasi infrastruttura.
È vero che i Paesi della Fennoscandia sono tra i più abbienti del Globo. Ma Norvegia e Finlandia contano appena 5,5 milioni di anime a testa, e la Svezia 10. Solo l’India ha il doppio del PIL di questi Paesi e un miliardo e 280 milioni di persone. È sempre questione di volumi e di numeri, nel commercio.
Morale? La via mercantilmente più appetibile passerebbe non rasente le coste russe, ma nel bel mezzo dell’Artide disciolta, dritta verso i porti islandesi in progettazione (Finnafjord): hub non solo verso l’Europa ma anche in direzione del Canada e della East Coast americana.
Con il grosso potenziale delle futuribili commodities groenlandesi. È la Transpolar Route, anche più breve del tragitto russo. Senza contare che, in tal modo, la Cina non dovrebbe chiedere il “permesso” per transitare attraverso gli stretti siberiani (Vil’kickij) e jacuzi (Laptev).
Il sentore è che la North East Route possa essere per la Russia sicuramente una rotta per gli idrocarburi verso le energivore economie asiatiche, orfane della stabilità di Hormuz e in cerca di diversificazione di approvvigionamento. Ma sarà molto difficile che rappresenti un volàno commerciale di livello globale.
Certo, potrebbe essere plausibile che all’andata venga usata la rotta siberiana, finché non diventa navigabile quella transpolare, e al ritorno la tratta via Suez. Ma bisogna fare i conti con il convitato di pietra che sorveglia le evoluzioni artiche: gli Stati Uniti.
Essi hanno plasmato la moderna versione della Globalizzazione secondo i propri desiderata, cioè con il controllo dei commerci tramite la supervisione militare degli Stretti (Stretto di Taiwan, Malacca, Palk, Bab al-Mandab, Suez Gibilterra e Panama).
L’Egemone è il Dominus dei Sette Mari. In quanto tale, mal digerirà la gestione condominiale di Bering con Mosca. Ma ciò non significa che le merci che entrano dall’Artico, sponda Pacifico, possano transitare liberamente e impunemente nell’Artide occidentale atlantica. Il GIUK GAP vedrebbe rinnovata la sua valenza nel containment strategico avverso i rivali incumbent, prima russi e ora anche cinesi.
E qui torniamo, circolarmente, al presupposto biblico iniziale con un quesito finale: i (nuovi) conquistatori bianchi anglosassoni, eletti da Dio e dalla Storia, accetteranno l’espansione altrui nel proprio cortile di casa? O ricongeleranno, a loro modo, l’Artico?
Marco Leone
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