La crisi in Ucraina spinge la Russia a vietare l’export di grano verso la UE fino ad agosto. Rincari e carenze minacciano la stabilità di molti Paesi di tutta l’area europea e mediterranea. Il ruolo dell’Artico con il permafrost che si scioglie.
La storia ci ha abituati a pensare che le armi di un conflitto siano solo quelle dei soldati, le stesse che in questi giorni sono protagoniste dei notiziari. Ma non sono solo missili e bombe le armi del conflitto russo-ucraino. Un’arma non meno potente e distruttiva di quelle impiegate negli scontri è pronta a fare il suo ingresso in questo conflitto: il grano.
Mentre gli occhi del mondo sono fissi sulle sorti del gas e del petrolio, sul loro crescente aumento di prezzo, pochi riflettono sul destino del grano, di cui Ucraina e Russia sono tra i principali esportatori a livello globale. E infatti, questi due Paesi rappresentano circa il 29% delle esportazioni globali di grano ed il 19% delle esportazioni di mais.
In un mondo così interconnesso come quello attuale, ogni bene esportato può costituire uno strumento utile a perorare la causa del più “forte”, dove però il più “forte” non è più o non è solo quello con la migliore milizia ma anche quello con una bilancia commerciale marcatamente in attivo.
Il conflitto russo-ucraino ha provocato un ingente aumento del prezzo del grano, che ha raggiunto circa un +50% alla Borsa di Chicago e 460 euro per tonnellata alla Borsa di Parigi, confermando, così, l’incremento dei costi delle derrate alimentari a carico di produttori e consumatori.
La guerra ha portato alla distruzione dei porti ucraini escludendo così il paese dalle dinamiche commerciali del frumento, lasciando ampio spazio di manovra alla Russia. La “weaponization of grain” non è solo un altisonante concetto che prova a dare spazio a riflessioni sulle implicazioni della guerra nell’aumento dei prezzi delle derrate alimentari.
È qualcosa di più, che prova a puntare l’attenzione su un campanello d’allarme lanciato molte volte dagli scienziati e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: la capacità del cambiamento climatico di minare la pace e la sicurezza umana. Secondo questa visione, il cambiamento climatico sarebbe considerato come “threat multiplier” un fattore capace di inasprire, esacerbare, destabilizzare ulteriormente situazioni fragili, come una guerra.
Nessuna guerra è frutto esclusivo del cambiamento climatico ma è, invece, possibile considerare che, ad esempio, l’innalzamento della temperatura, unito ad altri “trigger” di instabilità sociale e politica (come crescita demografica o disoccupazione) sia in grado di incrementare il livello di tensione, come, secondo alcuni studiosi, accadde nel 2010 per le rivoluzioni della “Primavera Araba”.
Ma cosa c’entra il cambiamento climatico con il grano, il suo uso strategico e la guerra in Ucraina? E in che modo potrebbe riguardarci?
Le esternalità negative di matrice climatica che possono derivare da questo conflitto anticipano una storia di destabilizzazione mondiale in cui tutto inizia dal riscaldamento globale. L’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change descrive un mondo in cui la migrazione di specie vegetali e animali verso Nord, a causa dell’innalzamento della temperatura, è già in atto.
Per molti Paesi artici, come la Russia o l’Alaska, lo scioglimento del permafrost sta diventando ormai un’opportunità: la conversione di taiga e tundra in terra agricola.
Secondo le stime della FAO la Russia è il quinto Paese per predominanza di terre arabili.
E se il riscaldamento della Siberia da un lato può esporre il Paese a ingenti danni economici come il collasso delle infrastrutture, dall’altro, l’assenza sempre più prolungata dello strato superficiale del permafrost assicura ed amplia la produzione di grano della Russia, posizionandola, secondo le stime FAO, al quinto posto per estensione agricola.
E se anche il riscaldamento globale provocasse ancora prolungate siccità, la posizione russa nel mercato globale del grano le assicurerebbe una strategia “win-win” nella quale poter decidere di ridurre le esportazioni senza patirne conseguenze di sicurezza alimentare ed economica, come del resto è già accaduto nel 2010, quando a seguito di prolungata ondata di calore il governo decise di bloccare le esportazioni a scapito della fascia mediorientale, principale bacino di importazioni di grano russo.
Così il riscaldamento globale arma la mano russa lasciandole campo libero nel mercato globale del grano, avendo cura, prima, di disarmare quella dei paesi importatori, dall’Egitto all’Italia. L’aridità dei suoli agricoli che ha gradualmente impoverito le risorse naturali dei paesi del Mediterraneo, del Nord Africa e del Medio Oriente ha incrementato negli anni la dipendenza dalle importazioni di questo cereale.
Il riscaldamento globale sposta sempre più a Nord il clima mite che consente ai prodotti cerealicoli di proliferare. Ed è così che i climi freddi e inospitali del Nord della Russia iniziano a offrire terre fertili. Più a Sud, desertificazione, urbanizzazione e deforestazione sono le solide alleate di uno scenario di forte presenza russa nell’esportazione del grano.
Anche i Paesi occidentali ne sono colpiti. Secondo un report pubblicato sul sito del National Center for Biotechnology Information, gli Stati Uniti, altro player di spicco nel mercato globale del grano, a causa dei ricorrenti disastri climatici e all’alternanza tra periodi di siccità e alluvioni, entro il 2026 potrebbe non essere più capace di soddisfare la sua domanda di grano, così come l’Europa.
Anche l’Europa importa grano dalla Russia seppur in minime quantità rispetto ai volumi di gas. Per quanto riguarda l’Italia, il nostro paese non può di certo dirsi immune alla militarizzazione del grano né all’aridità dei suoli. In una recente nota, Coldiretti ha evidenziato che l’Italia importa circa il 64% dal grano da Ucraina e Russia, per un ammontare rispettivo di 120 milioni e 100 milioni di chili. Impossibile pensare, almeno nell’immediato, ad una self-subsistence production.
La produzione di grano italiana è deficitaria in termini di fabbisogno, dovendo anche mantenere alto il livello di esportazione di pasta, e affronta problemi analoghi ad altre aree del Mediterraneo il cui clima sta diventando sub-tropicale.
L’effetto domino del riscaldamento globale che ha incrementato la produzione di grano russa sta rendendo orfano di terra il grano, per il quale si sta iniziando a ipotizzare un “trasferimento” più a Nord, senza escludere la pianura padana, nonostante la stessa sia interessata ormai da tempo da lunghi periodi di siccità. Non basterà solo incrementare i sussidi agli agricoltori, bisognerà anche trovare una terra sana e fertile.
Guerra e cambiamento climatico si uniscono in un mix potenzialmente esplosivo che non salva nessuno e mostra tutta la fragilità del mondo attuale. Se la situazione odierna sul fronte guerra non consente previsioni, dal punto di vista climatico, continuare ad agire “business as usual” significa aumentare la possibilità che in futuro le materie prime divengano le armi principali di un conflitto, in cui l’insicurezza alimentare mieterà vittime anche al posto della guerra come già sta accadendo in diverse aree, come il Sahel.
Non cadiamo nell’errore che siano realtà lontane al nostro benessere e alle nostre tavole. Demilitarizzare le materie prime come il grano e rendere le dipendenze commerciali innocue ed incapaci di ledere i paesi importatori più instabili deve diventare un vantaggio di consapevolezza nella lotta al cambiamento climatico, il quale, può essere anche più pericoloso di una grandine ad agosto che rovina i vigneti.
Anna Chiara Iovane
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