Dalla fine della Seconda guerra mondiale all’epoca dei sottomarini nucleari, l’Artico ha assunto un ruolo cruciale nella Guerra Fredda, trasformandosi da terra di confine a teatro strategico per lo sviluppo – e l’impiego – di tecnologie militari e sistemi di difesa.
La fine della Seconda guerra mondiale aveva visto emergere come potenze del nuovo sistema bipolare che avrebbe caratterizzato la politica internazionale fino al 1991 gli Stati Uniti d’America e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Il 1945 aveva segnato la fine sia del conflitto sia dell’alleanza che aveva visto gli USA, l’URSS e il Regno Unito combattere congiuntamente il nazifascismo. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ora che l’Italia, la Germania e il Giappone erano stati sconfitti, si cominciarono a concentrare sulla minaccia che costituivano i valori dell’avversario, diametralmente opposti ai propri.
Sia a livello governativo sia a livello di opinione pubblica si poté assistere negli Stati Uniti a un repentino cambio di visione dello Stato sovietico e dell’ormai “minaccia comunista”. Lo stesso Stalin, dall’altra parte, era convinto dell’ineluttabilità dello scontro tra il comunismo e il capitalismo: secondo la sua opinione la Seconda guerra mondiale aveva infatti costituito nient’altro che una pausa obbligata nella lotta tra le due ideologie.
Ciò che avrebbe caratterizzato il fronteggiarsi delle due Potenze (e, come abbiamo detto, dei loro contrapposti sistemi di valori) durante la Guerra Fredda fu l’energia nucleare applicata alla guerra. Il 6 e il 9 agosto del 1945, per costringere il Giappone imperiale alla resa, gli Stati Uniti avevano infatti sganciato sulle città di Hiroshima e Nagasaki due ordigni nucleari che avevano mostrato al mondo intero la sconcertante potenza delle nuove armi.
Il 29 agosto del 1949, nel poligono nucleare di Semipalatinsk, nell’odierno Kazakistan, detonava il primo ordigno nucleare sovietico dal nome di Pervaja Molnija, o “Primo bagliore”. La fine del monopolio nucleare statunitense portò all’avvio di una corsa agli armamenti tra USA e URSS che, a fasi alterne, si sarebbe protratta per l’intera Guerra Fredda.
Ciò che caratterizzò, quindi, la maggior parte degli anni Cinquanta fu la corsa agli armamenti nucleari e lo sviluppo di nuove bombe atomiche sempre più potenti e di bombardieri nucleari sempre più capaci. La zona polare acquisì importanza strategica perché l’Artico poteva essere sorvolato con facilità dai bombardieri che avrebbero potuto sganciare ordigni nucleari dall’Unione Sovietica sugli Stati Uniti e viceversa. Tale rischio portò all’introduzione di diverse novità tecnologiche, quali il radar.
Si rese quindi necessaria, per ottenere un congruo avvertimento del pericolo imminente, la costruzione di una vasta rete di installazioni militari nell’Artico: torri radar, basi missilistiche e aeroporti che potessero ospitare aerei da caccia per intercettare eventuali velivoli nemici in avvicinamento. In Unione Sovietica, il sistema di difesa antiaereo si collocava soprattutto sulla penisola di Kola, ma anche su tutta la costa siberiana e sugli arcipelaghi di Novaja Zemlja e della Terra di Francesco Giuseppe.
L’introduzione del missile balistico intercontinentale rese però obsoleta questa preoccupazione – anche se la struttura di difesa antiaerea sovietica continuò a esistere e fu integrata da sistemi di rilevamento antimissile – dato che ora l’esplosivo nucleare poteva volare anche sopra l’Atlantico o il Pacifico senza bisogno di prendere scorciatoie polari.
L’Artico tornò a essere rilevante dal punto di vista militare a partire dal 1958, quando il primo sottomarino a propulsione nucleare della Storia, lo statunitense Nautilus, navigò sotto la calotta glaciale artica fino Polo Nord, mostrando come gli USA avessero ormai una padronanza tale della tecnologia militare da permettere loro di raggiungere le coste sovietiche e di lanciare i propri missili senza essere individuati preventivamente. L’impresa fu poi emulata nel 1962 dal sottomarino sovietico K-3, poi ribattezzato Leninskij Komsomol o “Gioventù leninista”.
Tommaso Bontempi
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