Il duello sino-americano distoglie l’attenzione dal fatto che esiste anche un’altra nazione revisionista in Asia: il Giappone di Shinzo Abe. Non motu proprio, ma per necessità. Il Mondo intorno sta cambiando, anche climaticamente, e il Giappone cerca di adattarsi. Anche a costo di battere inusitate rotte artiche. Questa analisi è parte del dossier congiunto IARI-Osservatorio Artico “La corsa per il Grande Nord“, scaricabile gratuitamente qui: DOSSIER.
Ny-Ålesund, isole Svalbard, territorio norvegese che un trattato internazionale del 1920 aprì all’uso commerciale e scientifico degli altri paesi. Il Giappone, tra i primi firmatari, è presente con un’installazione del National Institute of Polar Research (NIPR) sin dal 1990, anno di fondazione dell’International Arctic Science Committee (IASC), organizzazione non governativa che si compone di gruppi di ricerca internazionali.
Dal 2013 è anche membro osservatore dell’Arctic Council. La lunga tradizione nella ricerca polare è uno dei principali argomenti avanzati dal governo per legittimare il suo interesse per l’Artico. È anche uno dei pochi Paesi, quattordici in tutto, ad avere un’ambasciata in Islanda.
Insomma, alla stregua di altre nazioni asiatiche, anche il Giappone pensa che sia meglio esserci e usare scienza e diplomazia per intessere relazioni in un quadrante foriero di importanti cambiamenti, oggi climatici, domani economici. Ma è solo dal 2015 che il Paese si occupa seriamente di Artico.
Lo asserisce di fronte all’Arctic Circle di quell’anno Kazuko Shiraishi, l’ambasciatore giapponese responsabile degli affari artici, neo figura diplomatica istituita proprio nel 2015. Il nuovo approccio rientra nella politica Global Japan, sostenuta dallo schieramento capeggiato dall’ex premier Shinzo Abe, che cerca di rispondere alle nuove sfide che su vari livelli il contesto internazionale sta ponendo al Paese.
Fino ad appena 170 anni fa, il Giappone era un paese feudale, dilaniato da secoli di lotte tra gli Shogun, i Signori della Guerra, totalmente isolato e autarchico. Oggi è la terza economia del mondo, seconda talassocrazia e avanguardia dell’intelligenza artificiale. Eppure, il suo perimetro di sicurezza difensiva, commerciale, energetica, tecnologica e ambientale è a rischio.
Da almeno un decennio il mondo attorno l’arcipelago nipponico sta pericolosamente cambiando. Il Giappone si ritrova geograficamente nel mezzo del confronto sino-americano, con il più numeroso contingente statunitense all’estero presente sul proprio suolo, la minaccia nucleare di P’yōngiang incombente più che mai, e la storica ostilità dell’altra Corea.
La vera minaccia è considerata la Cina: il progetto delle nuove Vie della Seta sarebbe anche considerata un’opportunità, non fosse per il serio timore che ciò possa portare alla creazione di un sistema di basi militari a presidio dei nuovi traffici. Il rafforzamento dell’alleanza QUAD con USA, Australia e India è lo strumento coltivato dal Giappone per salvaguardare l’Indo-Pacifico dalle mire di Pechino.
Investire nell’artico russo (come vedremo più avanti) e riavviare seriamente il negoziato con Putin sulle Curili meridionali (Territori settentrionali per i nipponici) è un modo per dividere Cina e Russia trattandoli separatamente, anziché come nemici, e per evitare che l’Orso abbia come unico partner industriale orientale il Dragone.
L’apertura agli scambi economici nell’era Meiji, l’industrializzazione, e il vertiginoso aumento della popolazione, imposero all’impero di convertirsi in potenza coloniale per reperire all’estero le risorse necessarie. Dopo il 1945 necessità e caratteristiche del sistema produttivo nipponico non sono variate: il Sol Levante ha necessità di commerciare con il resto del mondo, essendo per di più scarso in materie prime.
Il progetto della BRI coinvolge anche i Paesi del Sud-est asiatico, tentando di farli rientrare nella sfera d’influenza cinese tramite le sirene economiche. Il Giappone risponde mantenendo vivo il trattato TPP (Trans-Pacific Internship) con gli altri dieci paesi (Canada, Messico, Perù, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Singapore, Brunei, Malaysia, Vietnam), in attesa del ravvedimento degli USA.
In più, può vantare rapporti solidi con Taiwan, Brunei, Laos, Thailandia, Malaysia, Filippine, cominciati come riparazioni di guerra e poi divenuti strumento d’influenza, tanto che spesso la classe dirigente di tali stati è di formazione giapponese. Lo shock di Fukushima ha ridotto la produzione nucleare interna dal 20% al 10% sul mix energetico nazionale, aggravando la già fortissima dipendenza da fossil fuel estero (alle prime due voci dell’import Greggio e Gas, al quinto i coal briquettes per caldaie e stufe).
Dopo la crisi di Crimea, gli USA hanno ostacolato gli ulteriori tentativi di investimenti giapponesi negli impianti russi di Sakhalin (presenti con SODECO, joint-venture privato-governativa, in Sakhalin-1 e con Mitsui & Co. e Mitsubishi Corp. in Sakhalin-2), bloccando l’intesa del 2016 tra la russa Rosneft e la JOMEC (Japan Oil Gas & Metal Nat. Corp.), perché contraria al regime sanzionatorio contro Mosca.
Ma dopo la crisi di Hormuz dell’estate 2019, choke point da cui passa quasi tutto il greggio importato dal Giappone, l’interesse nazionale nipponico urge di potenziare e diversificare la supply chain a monte, tra i fornitori. Il GNL sta aumentando la sua quota negli approvvigionamenti. Attualmente, i volumi provenienti da Australia, Qatar e Malaysia (i maggiori produttori LNG fino al 2018) ammontano a circa il 60% delle importazioni nipponiche.
Gli USA stessi hanno iniziato a rifornire il Sol Levante dal 2017. Aumentare la quota russa sarebbe importante. Nel settembre 2019 Rosneft e l’Agenzia giapponese per le Risorse Naturali e l’energia hanno siglato un memorandum per future esplorazioni oil & gas e lo sviluppo del comparto petrolchimico. Senza contare che la tratta orientale del nuovissimo gasdotto russo-cinese “Power of Siberia“, la Sakhalin-Khabarovsk-Vladivostok, potrebbe rivelarsi utile per i trasferimenti di gas naturale liquefatto verso l’arcipelago. Ma a Tokyo non basta. Così va direttamente nell’Artico russo a contrastare i cinesi.
Proprio nei giorni a ridosso della crisi di Hormuz, l’investimento “Arctic LNG2” di Novatek, la maggiore società gasifera privata russa, viene esteso con una quota del 10% al consorzio Japan Arctic LNG, costituito dai conglomerati (keiretsu) Mitsui & Co (25%) e JOMEC (75%), dopo tre anni di trattative.
Il progetto è solo uno di quelli esistenti e in costruzione nella penisola di Gydan. La Cina è già presente in Yamal LNG e nello stesso Arctic LNG2. Pertanto la politica artica di Abe si propone non solo fare concorrenza a Pechino nel partenariato con Mosca, ma anche di sperimentare un’inedita collaborazione industriale, come nelle dichiarazioni dello stesso Premier nell’incontro dell’ottobre 2018 con il primo ministro cinese, Li Keqiang, “Passando dalla concorrenza alla collaborazione, voglio portare le relazioni Giappone-Cina a una nuova era“ [l’articolo è stato composto quando Abe era ancora Premier ndr].
La visione è ancora più ampia:
«Giappone e Cina, insieme a Seoul, intrattengono un Dialogo trilaterale ad alto livello sull’Artico che funge da piattaforma diplomatica per rafforzare la cooperazione nei settori della scienza e della ricerca e gli affari, considerate le aree più promettenti per attività congiunte in un Artico in continua evoluzione»
Negli ultimi decenni, gli elementi delle Terre Rare (R.E.E.) hanno visto un rapido aumento della domanda da parte delle economie di trasformazione come il Giappone, che dipendono da pochi fornitori per i componenti chiave della loro industria manifatturiera, anche nel delicato campo della Difesa.
Oggi è la Cina ad averne la maggior parte delle miniere e le strutture per processarle (le R.E.E. non si trovano “pure” in natura ma solo come cationi legati a elementi non metallici in una varietà di minerali, da cui vanno separate). In una delle scaramucce che periodicamente Tokyo e Pechino hanno sulle contese e strategiche isole Senkaku, nel Settembre 2010 il Giappone scoprì che le R.E.E. non sono solo metalli strategici ma anche critici, cioè con una catena di approvvigionamento facilmente interrompibile.
La Cina, infatti, reagì con il blocco delle esportazioni dei preziosi elementi verso il Giappone, il quale tornò a più miti consigli. Ad oggi bastano poche tonnellate di Terre Rare per soddisfare la domanda mondiale. Dunque, poche miniere, ubicate in pochi paesi. Da qui la valenza geopolitica della loro supply chain. Una delle poche miniere R.E.E. operative al di fuori della Cina è in Russia, il deposito massiccio alcalino di Lovozero nella penisola di Kola. Qui, i REE vengono estratti dai minerali della loparite (niobio) e dalla eudialyte (disprosio).
A inizio Marzo 2020 il presidente Putin ha firmato i “Fondamenti di politica statale della Federazione Russa nell’Artico per il periodo fino al 2035”, preannunciando “partenariati stabili e reciprocamente vantaggiosi” e facendo seguito alla recente legislazione in materia di esenzioni fiscali per gli investitori nella regione. Un’occasione per il Sol Levante di diversificare nelle Terre Rare coltivando in contemporanea la relazione economica con la Russia.
Per il Giappone il Climate change è una seria minaccia alla sua sicurezza alimentare. All’inizio dell’era Meiji il Giappone riusciva autarchicamente a sfamare 30 milioni di persone con l’agricoltura. Molto dipendente dalle importazioni estere, oggi solo il 40% del cibo giapponese viene prodotto sul mercato interno, ponendo il suo tasso di autosufficienza nella produzione alimentare come il più basso nel mondo sviluppato.
Il cambiamento climatico sta già avendo un impatto. Secondo un rapporto del 2008 del Comitato giapponese sugli impatti dei cambiamenti climatici e la ricerca sull’adattamento, le rese e la qualità del riso sono costantemente diminuite a causa delle temperature più elevate.
Inoltre, nel rapporto del 2009, “Global Warming: Impact on Japan“, finanziato Ministero dell’Ambiente e coordinato dall’Istituto per le scienze dell’adattamento ai cambiamenti globali all’Università di Ibaraki, si conclude che, in assenza di contromisure, i costi economici delle alterazioni atmosferiche di lungo periodo in Giappone potrebbero raggiungere i 17 trilioni di yen (176 miliardi di dollari) all’anno entro la fine del secolo.
Questo causerebbe un aumento della gravità delle catastrofi naturali, come le inondazioni, turbamento di alcuni dei suoi principali ecosistemi naturali e una maggiore pressione su un sistema sanitario già alle prese con l’invecchiamento della popolazione. Investire in ricerca nell’Artico, così, non è solo un vettore di potenza ma una necessità diplomatica di creare una cooperazione scientifica atta ad fronteggiare i pericoli del Global Warming).
Il Giappone si prepara all’ennesima trasformazione. Per via dell’attivismo cinese, del retrenchment americano, delle conseguenze climatiche sul suo territorio e dell’urgente esigenza di diversificare l’approvvigionamento delle risorse, esorcizzanfo così l’instabilità di Hormuz, ormai fattore di medio-lungo periodo. “È tempo di creare un nuovo Giappone, in vista di una nuova era” (Shinzo Abe). Global Japan, l’abbandono dell’isolazionismo. Una ineluttabilità per un paese di cui sentiremo parlare più spesso.
Marco Leone
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