Uno studio condotto da due istituti di ricerca del CNR ha ricostruito le variazioni della copertura di ghiaccio marino sub-polare in risposta ai rapidi riscaldamenti climatici verificatisi durante l’ultima era glaciale.
Uno studio condotto da due istituti di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) e Istituto di scienze polari (Isp) – in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia, l’Università di Padova e con diversi istituti internazionali (AWI, CIC, CSIC, PSI), ha ricostruito, ad alta risoluzione temporale, l’evoluzione della copertura di ghiaccio marino nella regione sub-polare compresa tra la Baia di Baffin e il Mare del Labrador, prendendo in esame una serie di oscillazioni repentine del clima avvenute tra 36 e 44 mila anni fa. La ricerca è pubblicata su Proceedings of the National Academy of Science (PNAS).
“Il lavoro combina due record di ghiaccio marino: il primo ottenuto tramite l’analisi dei sali marini (bromo e sodio) presenti in una carota glaciale estratta in Groenlandia nord-occidentale; il secondo basato sull’associazione di bio-marcatori presenti in una carota di sedimento marino prelevata nel Mare di Labrador”, spiega Federico Scoto del Cnr-Isac, che ha guidato lo studio. “I risultati mostrano come, fra le regioni sub-polari della Baia di Baffin e del Mare di Labrador, il tempo di reazione del ghiaccio marino, in seguito a un brusco aumento delle temperature in Groenlandia, sia quasi sincrono, istantaneo o avvenga nel giro di una decade, passando da una spessa copertura pluriennale persistente a condizioni di mare aperto e ghiaccio stagionale”, aggiunge Scoto.
Queste evidenze forniscono ulteriori prove della stretta relazione tra riscaldamento climatico e riduzione del ghiaccio marino artico. “I cicli climatici noti come eventi Dansgaard-Oeschger (D-O) sono caratterizzati da un aumento fino a +15 °C delle temperature atmosferiche in Groenlandia in poche decine di anni, seguito da un progressivo raffreddamento che può durare fino a 1-2 mila anni”, prosegue Carlo Barbante, direttore del Cnr-Isp, professore all’università Ca’ Foscari e co-autore dello studio. “Sebbene alcune ipotesi leghino tali oscillazioni al cambio di copertura del ghiaccio marino in Artico, dinamica e legame temporale dei due processi non erano del tutto chiare. Questo studio fa luce su tali aspetti e conferma l’importanza di studiare le variazioni climatiche del passato per comprendere meglio le presenti e sviluppare modelli per il futuro”.
Il ghiaccio marino, banchisa o sea ice, si forma in inverno nelle regioni polari ed è una delle variabili climatiche fondamentali. Lo spessore della banchisa artica può variare da poche decine di centimetri fino a 5 metri, a seconda dell’età del ghiaccio: quello di nuova formazione (first-year sea ice) di rado supera il metro, risulta più fragile e soggetto alla fusione estiva rispetto a quello pluriennale (multi-year sea ice), spesso fino a diversi metri e più duraturo.
“Negli ultimi decenni, a causa del riscaldamento antropico, in Artico si sono osservate una riduzione dell’estensione del ghiaccio marino del 13% ogni dieci anni, rispetto al periodo 1981-2010, e una perdita di volume di oltre il 60% rispetto al 1982, dovuta in gran parte alla progressiva scomparsa del ghiaccio pluriennale. Con questo ritmo, in base agli scenari climatici futuri, l’Oceano Artico sarà privo di ghiaccio in estate già dal 2050”, avverte Barbante.
“I nuovi dati confermano quanto sostenuto in un precedente studio che mirava a ricostruire l’evoluzione del ghiaccio marino nell’artico canadese durante l’intera ultima Era Glaciale, senza però la risoluzione temporale necessaria per risolvere in dettaglio le transizioni cicliche da periodi stadiali freddi, a periodi interstadiali caldi”, conclude Andrea Spolaor, ricercatore del Cnr-Isp.
“Grazie all’alta risoluzione abbiamo scoperto che il ghiaccio marino pluriennale si è ristabilito nel periodo di ritorno del clima freddo, suggerendo un ciclo di feedback in cui l’accumulo di ghiaccio marino persistente potrebbe aiutare la transizione del sistema climatico alle condizioni fredde”.
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