Quanto può essere efficace la tecnologia nel contrasto al cambiamento climatico? È giusto o eticamente sbagliato? La geo-ingegneria polare fra pro e contro nel contesto della lotta al global warming.
Al centro del cambiamento
In lingua inuktitut non esiste una traduzione di cambiamento climatico comune a quella diffusa nella percezione occidentale del termine. Sila Alangotok, oltre ad essere il titolo di un documentario che ha raccolto le testimonianze dei popoli artici sulle drammatiche conseguenze che il riscaldamento globale sta avendo sull’ecosistema polare, è un’espressione che traduce la percezione e la consapevolezza di un “unprecedented phenomenon” che coinvolge e minaccia l’esistenza non solo dello “spirito boreale” (sila) ma anche del resto del Pianeta.
Mentre prosegue il dibattito tra sostenitori e scettici della geoingegneria come misura per ridurre le emissioni di CO2, la regione polare non arresta il suo processo di “bluing”. Il Climate Risk Management – declinato nei termini della geoingegneria boreale – suggerisce come misura di contrasto al Global Warming un’idea. E allo stesso tempo solleva un dubbio: ricongelare l’Artico, è possibile?
Prima di verificare la possibilità di ripristinare il freddo polare, è opportuno chiedersi perché quest’idea inizi a essere valutata, andando alla radice dei problemi che il cambiamento climatico sta causando all’Artico.
Il riscaldamento globale: seeing is believing
Credere solo a ciò che si vede è una tendenza universale. Un evento diventa pericolo (outrage) quando se ne percepiscono vicinanza e dannosità, ovvero, quando questo diventa tangibile almeno per uno dei cinque sensi. Tutte le strategie adottate dai governi per gestire il rischio legato al cambiamento climatico si devono necessariamente confrontare con un “hidden hazard”, un fenomeno di per sé “impercettibile”, ma le cui conseguenze non tardano mai a mostrarsi, nel tempo, agli occhi della popolazione mondiale. Ed è questa la ragione per cui il processo comunicazione scientifica-percezione pubblica è fondamentale: la prima misura di contrasto al cambiamento climatico è averne coscienza.
Tuttavia, la voce della scienza, principale canale di informazione sulla situazione ambientale dell’Artico e sulle conseguenze globali del suo riscaldamento, spesso non riesce ad arrivare al pubblico, difficilmente catturato dal linguaggio tecnico scevro di immagini che correla i lunghi report climatici. Pertanto, se è vero che il pubblico mostra maggiore interesse per ciò che riesce a vedere, aggiungere suoni e immagini al riscaldamento globale ne dovrebbe aumentare il grado di percezione. Da rischio nascosto e fenomeno circoscritto a distinte aree geografiche, a rischio capace di mettere in pericolo la sicurezza e la pace globali.
Quando nel 2004 uscì nelle sale americane “The day after tomorrow”, il regista Roland Emmerich motivò il catastrofismo apocalittico del film con la volontà di sollecitare la coscienza sociale sul cambiamento climatico, una tematica passata troppo spesso sottotraccia. L’esperimento riuscì. Un sondaggio, infatti, rilevò tra i “movie watchers” uno stato di alert maggiore rispetto ai not-watchers in merito alle conseguenze del global warming, riportato sui grandi schermi nelle autentiche vesti di flagello biblico.
Il grande impatto sociale di questa linea di tendenza, che sottolinea con enfasi audiovisiva i disastri globali legati al cambiamento climatico, è stato confermato non solo dagli incassi del genere “catastrofico” hollywoodiano ma dalla stessa ricerca scientifica. I risultati elaborati nel 2019 e nel 2020 dal Pew Research Center, ad esempio, hanno formato una classifica nella quale il climate change si colloca al primo posto nell’alveo delle minacce globali per la maggior parte dei paesi occidentali.
Ma un dato più sorprendente, forse, è quello relativo al sondaggio dell’estate scorsa, dal quale risulta che nei 14 Paesi intervistati, il cambiamento climatico e la diffusione dell’attuale pandemia hanno registrato una media rispettiva di percezione di rischio identica (climate change 70%; diffusione di pandemia 69%).
Il riscaldamento dell’Artico
Le stagioni estive degli ultimi anni hanno spesso riportato sul web le immagini di spiagge affollate in Alaska e in Siberia, o delle renne adagiate sulla sabbia in una torrida giornata di sole finlandese. A queste diapositive paradossali si aggiungono fotografie meno stravaganti, come quella degli incendi originati dallo scioglimento dei ghiacci che sovrasta i laghi della Siberia, serbatoi naturali di gas metano.
Le attuali condizioni ambientali della regione artica testimoniano il suo pieno coinvolgimento nelle dinamiche del global warming. L’Artico brucia e, come il metallo che raggiunge alte temperature, si tinge di blu. Il blu del mare. La fisica spiega che il ghiaccio si scioglie quando la temperatura raggiunge 0° e che, quando la sua fusione è completa, la temperatura riprende a salire. Se si tiene presente che la temperatura media annuale dell’Artico è di circa -1° è semplice intuire che una minima variazione di 1° o 2° riesce a trasformare valori negativi in positivi. È questo il motivo per cui la regione è più sensibile al cambiamento climatico.
Pertanto, il trend dell’aumento delle temperature nella regione polare è maggiore rispetto a quello globale (Grafico 1). Questo fenomeno, noto come amplificazione artica, sintetizza l’impatto che il global warming sta avendo sulle condizioni ambientali del Polo Nord.
L’aumento delle temperature influisce sensibilmente sullo stato del Mar Glaciale Artico. Il primo aspetto da sottolineare è quello dell’estensione del ghiaccio marino. Secondo il National Snow and Ice Data Center, nel 2020 il ghiaccio marino ha raggiunto la seconda estensione più bassa mai registrata (dopo quella del 2012), con una media di 4 milioni di chilometri quadrati.
La mappa del calore riportata, che mette a confronto le diverse estensioni della calotta polare in relazione alla temperatura registrata per mese e anno, pone in risalto l’intensificazione dello scioglimento del ghiaccio marino come fenomeno relativo ai mesi aprile/maggio fino a dicembre.
Se è vero che l’assenza di ghiaccio può non suscitare eccessivo stupore per il periodo estivo, i dati più allarmanti sono quelli dei mesi successivi, in particolare per la media di estensione rilevata a settembre e a dicembre nell’arco del ventennio. I picchi maggiori rispetto al mese di settembre si sono verificati nel 2012 e nel 2020, anni nei quali si sono registrate le medie di estensione di ghiaccio marino più basse (3,566 milioni di km2 e 3,925 milioni di km2). Per il mese di dicembre, il 2020 ha riportato in assoluto l’estensione minore del ventennio con 11,766 milioni di km2, con una riduzione di circa il 7% rispetto allo stesso periodo nell’anno 2000.
Le conseguenze dell’Artico blu
La lezione più importante che il riscaldamento dell’Artico insegna è che la lontananza geografica non ha alcun peso. Trattare solo dello stravolgimento ambientale dell’Artico non dovrebbe indurre a essere preoccupati solo per gli inuit che non riescono più a cacciare e pescare o per gli orsi polari emaciati, ma anzi, dovrebbe far riflettere sui rischi globali legati al melting Arctic.
L’amplificazione artica è un fenomeno self-sustaining, cioè capace di rigenerarsi ed irrobustirsi da solo (meccanismo climatico a feedback positivo), realizzando la mise en place di una serie concatenata di eventi che raggiungono anche i mari caldi dei tropici. Il suolo e la parte di mare solitamente coperti di ghiaccio assorbono energia solare in quantità maggiore rispetto alla calotta polare che, al contrario, riflette i raggi del sole.
Questa energia che si accumula nell’acqua e nel suolo viene in parte rilasciata sotto forma di calore nell’atmosfera che, a sua volta subisce un aumento di temperatura. Più l’atmosfera si riscalda, più l’estensione del ghiaccio marino si riduce e l’acqua del Mar Glaciale aumenta di temperatura. Il riscaldamento dell’Artico contribuisce all’innalzamento del livello del mare attraverso l’accelerazione della fusione del ghiaccio polare che si riversa direttamente in mare e tramite la dilatazione termica, un processo fisico nel quale l’acqua riscaldata subisce un aumento di volume.
Effetto domino
Le acque polari più calde costituiscono infatti il 30% dell’innalzamento medio globale del livello del mare, una minaccia reale per l’incolumità delle aree costiere e delle isole. Oltre al rischio di sparizione di remoti atolli dell’Oceano Pacifico, uno dei problemi più attuali legati all’innalzamento del livello del mare è legato alla sicurezza alimentare delle persone che vivono nelle aree costiere. Ad esempio, le frequenti inondazioni di acqua salata che interessano il Bangladesh spingono i residenti a modificare le loro abitudini alimentari.
Poiché non tutti i contadini hanno la possibilità di dedicarsi ad attività diverse dall’agricoltura come la pesca dei gamberi, molti di essi sono costretti a migrare per sopravvivere. Lo scioglimento della calotta polare concorre anche alla modificazione delle correnti oceaniche, alterando la stabilità dei diversi climi globali. Un recente articolo pubblicato su Nature Geoscience ha evidenziato un forte declino della Corrente del Golfo, l’autostrada marina lungo la quale circolano le acque globali dai Tropici al Polo Nord e che regola il clima in tutto il mondo.
Quando l’acqua calda dei Tropici sale verso Nord, essa diventa più fredda e più salata a causa dell’evaporazione. Raggiunto il Circolo Polare Artico, l’acqua più densa tende a sprofondare nel mare tra Groenlandia, Norvegia e Islanda, per riprendere poi il suo viaggio verso sud lambendo le coste europee. Se però il freddo polare diminuisce, questo meccanismo tende ad arrestarsi o almeno ad indebolirsi. L’Artico, dunque, gioca un ruolo fondamentale nella regolazione del clima a livello globale, fungendo da climatizzatore del Pianeta.
Senza il freddo polare non esisterebbe vita. Le strategie di contrasto al cambiamento climatico trovano la loro essenza nella consapevolezza di un pericolo concreto all’ambiente e alla sicurezza umana. Dal Protocollo di Kyoto agli Accordi di Parigi, molti sono stati gli interventi per ridurre le emissioni di CO2 o per resistere ai mutamenti di origine antropica delle matrici ambientali, ma l’incedere tracotante dello scioglimento polare sembra confermarne l’insufficienza. E se di fronte a minacce globali e scenari apocalittici reali le misure di adattamento e mitigazione al cambiamento climatico non sembrano fornire risposte adeguate, potrebbe essere necessario volgere lo sguardo altrove, alla ricerca di nuove idee. Ad esempio, ricongelare l’Artico.
La geoingegneria al servizio dell’Artico?
La sociologia insegna che anche una non-notizia può fare notizia. È questo il caso della geoingegneria artica, della quale si ha manifestazione, favorevole o contraria, solo negli articoli di allarme sul climate change. Ma per il momento, al Circolo polare Artico tutto tace. Anzi, l’unico rumore che ne investe il silenzio è quello dei “melting glaciers (which) sound like frying bacon”, secondo l’esperienza di Grant Deane, ricercatore presso lo Scrippt Institution of Oceanography dell’UC di San Diego.
La manipolazione del ghiaccio marino non è mai nata, se non negli esperimenti di laboratorio. Nelle menti, cioè, di chi ritiene che riportare la calotta polare al bianco candido di un tempo possa essere una risposta al riscaldamento globale. La geoingegneria polare consiste, per il momento, in una serie di progetti dediti al ricongelamento dell’Artico. Eppure l’acceso dibattito, dove scienziati di tutto il mondo si sfidano a colpi di ricerche sulla necessità e sui rischi della geoingegneria polare, va avanti quasi come se le idee di un iperuranio fantascientifico avessero preso consistenza. I progetti di Ice Management o di Glacial Intervention subiscono critiche. Da un lato potrebbero risollevare il declino della calotta polare, sempre che si accetti l’idea di alterare il clima e l’equilibrio biogeochimico dell’Artico.
E dall’altro avrebbero ben pochi effetti di mitigazione sul climate change. Tuttavia, la geoingegneria polare da sola non potrebbe mai contrastare o mitigare gli effetti del climate change. Pertanto, seguendo il pensiero di Bodansky e Hunt, i progetti in fase di elaborazione avrebbero come unico obiettivo il restoring dell’ecosistema artico ed andrebbero solo in adiuvandum alle politiche e alle misure di riduzione di CO2. La strada dell’accreditamento sociale e scientifico della geoingegneria polare è lungo e a tratti impervio. La diffidenza che aleggia sui progetti, sia quella degli studiosi della materia che quella dei policy maker, è ancora preponderante, sostenuta dalle scarse indagini sulle conseguenze degli interventi in Artico invocate dai primi e rinforzata dallo scetticismo soprattutto di origine economica dei secondi. Ricongelare l’Artico è un’idea ambiziosa che si nutre di diversi progetti che coinvolgono direttamente le acque polari. Vediamone degli esempi.
Sostituire il ghiaccio sciolto con nuovo ghiaccio è la proposta di un team di designers indonesiani, che sembrerebbe essere ispirata al ripopolamento delle foreste pluviali attraverso il piantamento di nuovi alberi. Un processo per ricreare vita. Gli ice-making submarine sono speciali imbarcazioni sulle quali l’acqua raccolta in serbatoi esagonali viene desalinizzata e congelata. Dopo circa un mese si assisterebbe, così, alla “nascita” di un “ice baby”.
Ma l’idea dell’architetto Kotahatuhaha e della sua squadra ha subito diverse critiche. C’è chi sostiene, ad esempio, che per limitare l’innalzamento del livello del mare ci vorrebbero almeno 10.000 unità di questi speciali sottomarini e chi ritiene che questo progetto non risolverebbe il problema della fusione della criosfera che ricopre la terra.
Arctic Bubbles
Come nel caso precedente, anche lo scopo di questo progetto è quello di incrementare la capacità riflettente del ghiaccio marino. Questa volta però l’idea non è quella di creare qualcosa di nuovo, bensì di tutelare il vecchio. Il progetto, nato dall’organizzazione Arctic Ice Project (che avevamo intervistato qui), mira a contrastare l’amplificazione artica con lo spargimento di bolle di silice non su tutta la superficie del ghiaccio marino, ma solo in quelle zone più vulnerabili per proteggerle dai raggi sole e integrarne l’albedo.
Il primo test è iniziato lo scorso giugno nello stretto di Fram, tra le Isole Svalbard e la Groenlandia, non senza i timori degli scienziati riguardo alle conseguenze che queste microsfere potrebbero avere sulle forme di vita alla base della catena alimentare artica. Il riferimento è all’incertezza relativa alla quantità di luce che la salica glass è capace di riflettere e che potrebbe intaccare il processo di fotosintesi del plankton. Una modifica nella rigogliosità del plankton potrebbe a sua volta riflettersi sulla vita degli altri organismi, dai pesci agli orsi polari.
L’altro campo della geoingegneria polare è quello della “Glacial Intervention”, che racchiude diversi metodi con i quali provare ad arrestare la “danza” dei ghiacciai in mare aperto, preservarli dallo scioglimento e arginare l’innalzamento del livello del mare. Una delle idee in campo è “recintare” i ghiacciai. Ad esempio, in Groenlandia, per limitare lo spostamento del ghiacciaio Jakobshavn è stata proposta la costruzione di un muro alto cento metri istallato sul fondale marino lungo 5 km nel Fiordo di Ilulissat. Questa protezione dovrebbe impedire lo scioglimento della parte sommersa del ghiacciaio preservandolo dalle acque più calde che provengono dall’Oceano Atlantico.
Questa speciale recinzione, secondo le proposte degli scienziati dell’Università di Princeton e l’Università della Lapponia, potrebbe realizzarsi anche attraverso la costruzione di un’isola artificiale di 300 metri pronta a fermare il ghiacciaio flottante. Le critiche poste a queste idee, che sono in fase di ricerca e modellazione, sono due: la prima relativa ai costi economici di costruzione e manutenzione pari a miliardi di dollari l’anno, la seconda connessa alla preoccupazione scientifica dell’impatto che impalcature di questo genere potrebbero avere sui fondali del Mar Glaciale Artico e sul suo ecosistema.
Le perplessità nutrite dagli studiosi nei confronti della geoingegneria artica sono presenti nella maggior parte dei progetti di geoingegneria volti a mitigare il global warming, ponendone in luce la precarietà di fondamento scientifico che le correla. Solo il tempo e la tenacia dei geoingegneri coinvolti potranno trasformare il progetto di ricongelare l’Artico in una scommessa vinta. Per adesso si può solo parlare ed esporre idee in cerca di audaci investitori. Va poi considerato che solo l’idea di manipolare il clima desta ed allarma le coscienze di tutti, perciò sarebbe necessario procedere con cautela e con le dovute indagini, volte ad accreditare le misure anticonvenzionali di mitigazione al cambiamento climatico o a lasciare che la geoingegneria polare dia preziosi feedback per nuovi plot catastrofici a qualche regista di Hollywood. “Look before you leap”.
Anna Chiara Iovane
Osservatorio Artico © Tutti i diritti riservati
Ho trovato l’articolo molto interessante spiegato in modo chiaro. ….. e anche molto traumatizzante nella sua realtà
Caterina Mazzoncini
Grazie Caterina!