L’uso controverso del test FKU continua a penalizzare i genitori groenlandesi, riaprendo ferite storiche e alimentando un acceso dibattito sul rispetto dei diritti culturali e familiari.
Noi non prendiamo i vostri figli
“Forse in Danimarca credete che siamo una sola società, ma non è vero, siamo due. Siete stati con la Groenlandia per molti, molti anni. Abbiamo rispettato la vostra cultura e le vostre regole, dovremmo valere qualcosa per voi. Basta con il pregiudizio. Noi non prendiamo i vostri figli”.
Queste sono le parole pronunciate da Keira Alexandra Kronvold in un video recentemente pubblicato sul suo profilo Facebook, dopo la decisione delle autorità danesi di toglierle la custodia della neonata Zammi, strappata dalle sue braccia a sole due ore dal parto. Ora Keira potrà vedere sua figlia solo per un’ora alla settimana e sotto la supervisione di un’assistente sociale.
Secondo Tina Naamansen, rappresentante di Sila 360, un’associazione per la difesa dei diritti inuit, il caso di Keira non è un episodio isolato, ma l’ennesima separazione forzata derivata dall’uso del controverso test FKU (forældrekompetenceundersøgelse), un insieme di valutazioni psicometriche utilizzate in Danimarca per giudicare le capacità genitoriali e da tempo accusato di penalizzare la minoranza groenlandese.
Il caso di Keira, con tragica ironia verificatosi il 7 novembre 2024, giorno dell’Inuit Day (festività istituita per “celebrare gli Inuit e amplificare la loro voce”), è diventato un simbolo delle difficoltà dei Groenlandesi a vivere secondo le regole di una società che sembra non voler riconoscere la loro cultura.
Un caso tra tanti: il controverso test genitoriale
L’FKU consiste in una serie di domande, interviste e osservazioni dirette progettate per valutare il carattere e le capacità cognitive dei genitori. Tuttavia, secondo le organizzazioni che ne criticano la validità, il test ignora le differenze culturali e le barriere linguistiche, determinando spesso valutazioni negative dei genitori groenlandesi e la conseguente rimozione della custodia dei loro figli, nonostante la mancanza di prove concrete di inadeguatezza.
Nel 2022, il Danish Institute for Human Rights aveva già evidenziato che i figli di genitori inuit vengono allontanati dalla famiglia con una percentuale fino a sette volte superiore a quella dei figli di genitori danesi. Secondo Aaja Chemnitz, politica del partito groenlandese Inuit Ataqatigiit (Comunità Inuit) e membro del parlamento danese, il test è espressione di una logica assimilativa: anziché sostenere le famiglie indigene, tende a minare l’identità culturale e linguistica delle nuove generazioni groenlandesi, colpevoli semplicemente di “non essere abbastanza danesi”.
La professoressa Caroline Adolphsen, esperta di diritto sociale, ha recentemente criticato l’assenza di adattamenti culturali nel test e la lentezza del governo danese nell’affrontare il problema, nonostante le proteste in corso da anni.
Recentemente, il ministro danese per la casa e gli affari sociali, Sophie Hæstorp Andersen, ha inviato una lettera ai comuni danesi invitandoli a interrompere l’uso dell’FKU. Sebbene città come Copenhagen e Esbjerg abbiano deciso di aderire alla richiesta e fermato l’utilizzo del test, molte altre città, lamentando la mancanza di un’alternativa valida, continuano a utilizzarlo, provocando nuove proteste.
Le radici coloniali del problema
Nonostante la Danimarca sia considerata un modello di modernità politica e sociale, molti Groenlandesi, tra cui Aka Simonsen e Betty Siorak, entrambe attiviste per i diritti indigeni, denunciano episodi di razzismo quotidiano, affermando che spesso il solo fatto di possedere un documento di identità groenlandese può portare a difficoltà nell’accesso al lavoro e a pregiudizi.
Le stesse riportano anche di aver persino rinunciato a trasferirsi in Danimarca per timore di perdere la custodia dei propri figli. Per molti, l’FKU riflette ancora vecchie logiche coloniali, radicate in una rappresentazione degli Inuit come incapaci di badare autonomamente a se stessi. Questo stereotipo ha radici storiche, che risalgono quantomeno al periodo del secondo dopoguerra, quando la Danimarca avviò un piano di modernizzazione della Groenlandia caratterizzato da un approccio paternalistico e interventista che vide l’imposizione del modello socio-culturale danese sulla società groenlandese, modello al quale quest’ultima mai riuscì ad adattarsi completamente.
In quegli anni furono inoltre imposte dalla corona danese criminali politiche di controllo della popolazione. Tra queste si ricorda il tristemente noto “little danish experiment” degli anni ’50, a causa del quale ventidue bambini groenlandesi furono separati dalle loro famiglie e trasferiti in Danimarca perché fossero educati alla cultura danese. Questo esperimento, concepito per formare una nuova classe dirigente groenlandese, determinò traumi psicologici profondi e la morte prematura di molti dei partecipanti.
Negli anni ’60 e ’70, invece, migliaia di donne groenlandesi furono sottoposte all’impianto forzato di dispositivi contraccettivi nell’ambito di una politica di controllo delle nascite. La Danimarca ha chiesto scusa per queste pratiche solo di recente e le ferite causate sono ancora dolorosamente aperte.
Proteste e richieste di cambiamento
Le proteste contro il test FKU rappresentano l’appello di un popolo stanco di vivere sotto la lente del pregiudizio e del paternalismo e denunciano politiche che, mascherate da misure di protezione dei minori, limitano l’autonomia culturale delle famiglie groenlandesi.
In questi giorni alcuni politici groenlandesi e danesi sono impegnati in un dialogo per sviluppare nuove strategie più inclusive e culturalmente appropriate, ma i risultati tardano ad arrivare. Nel frattempo, gli echi della protesta si stanno diffondendo per le strade di molti Paesi. Nella sera del 10 dicembre diverse città della Groenlandia, Danimarca, Islanda e delle Isole Faroe si sono animate con manifestazioni di piazza, mentre le madri groenlandesi chiedono alla Danimarca rispetto e riconoscimento dei loro diritti e dignità.
Enrico Gianoli