Le iniziali debolezze strutturali hanno indotto la giovane Norvegia ad uno status internazionale pacifista conservativo. La rendita petrolifera ha poi permesso di declinarlo in pacifismo attivo.
Pienamente indipendente solo dal 1905, povera e affetta da una tardiva industrializzazione, la giovane Norvegia optò subito per un posizionamento internazionale pacifista. Il Paese scontava debolezze strutturali territoriali (difficoltà di controllo) e demografiche (esiguità della popolazione). Inoltre la politica di potenza del tempo era assai costosa e il Regno poteva vantare una reale vocazione non bellicosa – la doppia emancipazione, dai danesi nel 1814 e dagli svedesi nel 1905, avvenne, infatti, senza ricorrere alle armi.
L’istituzione da parte dello Storting, il Parlamento, del Premio Nobel e l’impegno per i consessi internazionali, come la neonata Società delle Nazioni, divennero la politica estera norvegese; d’altra parte, è tipico dei piccoli Stati contribuire all’espansione del Diritto Internazionale e dell’uso dei trattati arbitrali.
Nella prima metà del Novecento il paese norréno ha proseguito la politica di neutralità, cercando di rafforzare i propri legami con la Gran Bretagna, la potenza militare mondiale del tempo, anche a livello dinastico: il primo re, Haakon VII, era sposato con una nipote della regina Vittoria d’Inghilterra e loro figlio Alessandro, futuro Olav V, era il numero dodici nella linea di successione al trono britannico; cosicché frequenti e altamente simboliche erano le reciproche visite tra le due famiglie reali. Il 9 Aprile 1940, in seguito all’invasione tedesca della Norvegia, fu proprio a Londra che reali, governo e capi delle forze armate ripararono.
Nel secondo dopoguerra la Norvegia continuò ad allinearsi alla politica estera e di sicurezza inglese, rimanendo in disparte al progetto europeo, aderendo, poi, nel 1960 con la Gran Bretagna nell’associazione liberoscambista EFTA, e, infine, tentando invano di seguirne il percorso di adesione alle Comunità Europee.
Dopo il fallimento del referendum di adesione alla CEE nel 1972, con il mutamento del quadro internazionale, la fine di Bretton Woods e i litigi all’interno degli accordi di libero scambio EFTA, la Norvegia sostituì l’ala protettiva inglese, in inesorabile declino, con quella statunitense. Il Paese stava ormai cambiando anche internamente: la povertà diffusa era stata sconfitta grazie alle politiche di Welfare State, e il petrolio apriva rosei scenari di rendita mai immaginati prima di allora.
Dagli anni ’90, la NATO, di cui la Norvegia è tra i fondatori, è vista principalmente come un progetto di pace volto a garantire sicurezza e peacekeeping. L’idea di essere una nazione di Pace ha sempre avuto un profondo e vasto consenso nella popolazione norvegese, creando così un continuum che riprendeva il neutralismo anteguerra.
Ora la Norvegia ha le risorse per attuare una politica di coinvolgimento (engasjementspolitikk), cioè una politica di pace attiva, su cui vi è un totale accordo delle forze parlamentari: diventare una “grande potenza umanitaria” (è dello Storting il primo Libro Bianco sui diritti umani, 1977), in primis attraverso l’ONU, arena centrale degli sforzi norvegesi, di cui ebbe la prima presidenza (Trigve Lie, 1946-52), e in cui il paese nordico suole presentarsi come “un giocatore di squadra”, un facilitatore, un attore invocabile per compiti delicati in virtù di non avere interessi diretti identificabili.
La diplomazia norvegese ha percorso il sottile terreno del multilateralismo in situazioni anarchiche di assenza di valori condivisi tra le parti in causa. La conformità ai suggerimenti ONU – come il destinare l’1% del bilancio all’assistenza allo sviluppo – è un indicatore dello status di promotore delle organizzazioni internazionali di cui la Norvegia vuole apparire come capofila. D’altra parte il risvolto della politica di coinvolgimento è un attivismo umanitario, essendo le casse pubbliche nell’invidiabile ed apprezzata posizione di poter stanziare risorse per mantenimento della pace internazionale.
Il Paese, dopo la caduta del muro, ha gradualmente riconvertito le strutture statiche della difesa nazionale, aduse alla coscrizione universale maschile, in strutture più flessibili – reparti speciali, élites di professionisti – come le forze di polizia internazionale, adatte in contesti di post-conflitto, coltivando capacità di nicchia.
La Norvegia punta al dispiegamento di truppe in luoghi lontani per dimostrare la propria solidarietà internazionale, come avvenuto in Kosovo e con l’aeronautica in Libia nel 2011. Coerentemente con tale impostazione, il Paese non ha partecipato alla seconda guerra in Iraq, interpretata come atto unilaterale statunitense, ritirando il battaglione del genio già presente sul posto. Il risultato dello sforzo norvegese viene premiato con rilevanti uffici nei consessi mondiali, come la nomina dell’ex premier Jens Stoltenberg a segretario generale della NATO nel 2014.
In finale, il pacifismo distintivo dello status norvegese si è arricchito negli anni ’90 di una componente “attivista” grazie alle possibilità di spesa derivanti dai proventi della rendita petrolifera, costruendosi nel frattempo una vetrina mondiale grazie al premio Nobel, la cui fama e prestigio non ha eguali al mondo tra oltre 300 riconoscimenti analoghi esistenti per la promozione della pace.
Anche se operativamente indipendente, il comitato dell’istituto è eletto dallo Storting e i suoi membri sono ex ministri ed ex parlamentari, il ché significa che, anche se non è un organo della macchina statale, il Nobel è uno strumento effettivo di politica estera norvegese.
La centralità persa dopo il 1989 nelle strategie missilistiche nucleari della Guerra Fredda aveva relegato il paese scandinavo nella periferia geopolitica sia della NATO sia dell’Europa. Oggi, lo scioglimento della “sentinella silenziosa” glaciale ha aperto nuovamente, e questa volta ineluttabilmente, il teatro artico come una sfida aperta sul fianco nord statunitense. Alla militarizzazione delle coste nord russe si è aggiunto il dinamismo economico cinese in tutta la regione, toccando il ventre molle groenlandese, il cui indipendentismo può avere esiti inaccettabili per Washington (da cui la recente ri-proposta d’acquisto dalla Danimarca).
La Norvegia, dunque, oggi si trova nell’inedita condizione di essere un potenziale crocevia geografico di contrastanti interessi geopolitici e la sua storica tradizione pacifista sarà messa seriamente alla prova, tra aggressive fobie di accerchiamento russe, esuberanza commerciale cinese e crescente attenzione dell’Alleanza Atlantica per il quadrante artico (basti ricordare le recenti esercitazioni NATO, Trident Juncture 2018, proprio sul suolo norvegese, e Northern Coasts 2019 nel Mar Baltico, nonché la rediviva II Flotta statunitense ripristinata a Norfolk).
Insomma, come recitavano i latini “Si vis pacem para bellum”.
Bibliografia
Marco Leone
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