Le fiamme imperversano nell’Artico, dove la stagione degli incendi ha già toccato dei picchi eccezionali secondo Copernicus, il programma di osservazione terrestre dell’Unione Europea.
I primi incendi significativi della stagione nell’emisfero nord sono stati registrati dal Servizio di Monitoraggio Atmosferico Copernicus (CAMS) a inizio maggio nella regione canadese della British Columbia. A giugno poi l’allarme si è esteso all’Artico russo e in particolare alla Repubblica di Yakutia nell’estremo est della federazione. Con l’avanzare dell’estate il numero degli incendi ha continuato a salire in Canada, in Russia e anche in Alaska.
La situazione della Russia orientale ha destato particolare preoccupazione. “Questa regione nordorientale dell’Artico ha visto l’incremento più significativo di incendi estremi negli ultimi due decenni”, ha dichiarato Mark Parrington, ricercatore senior del CAMS.
A inizio luglio le fiamme hanno toccato anche le aree meridionali della Repubblica di Yakutia e le vicine province di Amur Oblast e Zabaykalsky Krai. Le elaborazioni del CAMS hanno stimato che le emissioni di carbonio causate dagli incendi nel paese avevano già superato al 15 luglio il volume complessivo registrato nei mesi di giugno e luglio sia 2023 che nel 2022.
Anche i dati relativi al Canada hanno toccato dei picchi significativi, pur restando abbondantemente sotto i tragici record del 2023 quando le emissioni causate dagli incendi nel paese hanno rappresentato il 22% delle emissioni globali di carbonio dovute a incendi.
Stati d’emergenza e allerte di evacuazione sono stati annunciati in Yakutia e nella provincia di Tuva in Russia, ma anche in alcune aree della British Columbia e dell’Alberta in Canada, mentre il Denali National Park in Alaska è stato temporaneamente chiuso a causa dell’incendio Riley -ora estinto- che ha bruciato più di 115,000 ettari in due settimane.
Interrogato sulla situazione, Mark Parrington ha sottolineato che “l’Artico si è riscaldato a un ritmo ben superiore a quello del pianeta nel suo insieme”. Di conseguenza, le condizioni alle alte latitudini settentrionali stanno diventando più favorevoli agli incendi”.
Parrington ha menzionato uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Nature ecology & evolution che dimostra appunto come il cambiamento climatico stia aggravando le condizioni che favoriscono lo scoppio di incendi estremi. Non unico e diretto colpevole, dunque, ma indubbiamente lo squilibrio di matrice antropica del clima è un complice chiave.
In Yakutia, ad esempio, la situazione emergenziale è divampata in un contesto in cui le temperature dell’aria di superficie e i livelli di secchezza sono stati a lungo oltre le medie stagionali.
Non si tratta solo di maggiore probabilità e frequenza, ma anche della gravità e dell’intensità degli stessi incendi. Sebbene la superficie totale bruciata sulla Terra sembra essere in diminuzione, infatti, gli autori dello studio hanno rilevato che il comportamento degli incendi sta peggiorando in diverse regioni del mondo, e in particolare nei biomi delle conifere boreali e temperate.
Questo significa che nonostante la superficie direttamente colpita dagli incendi sia inferiore, i danni relativi allo stoccaggio del carbonio e alla sicurezza umana sono sempre più gravi.
La devastazione prodotta in situ dalle fiamme è immediatamente visibile e comprensibile. Ci sono però degli effetti degli incendi artici che riescono ad estendersi molto al di là delle aree colpite e cui è necessario prestare attenzione.
“Quello che succede nell’Artico non resta lì”, parole di Gail Whiteman, professoressa dell’Università di Exeter e fondatrice dell’iniziativa Arctic Basecamp che sta collaborando con CAMS sulla trasposizione dei dati sugli incendi in sistemi di allerta.
Il rilascio -improvviso e concentrato nel tempo- di enormi quantità di carbonio in atmosfera impatta il sistema climatico terrestre su scala globale, andando tra l’altro ad aggravare quelle condizioni che favoriscono lo scoppio di nuovi incendi.
Oltre alle emissioni carboniche, altri danni che spesso attraversano i confini geografici riguardano il fumo dal momento che questo può viaggiare anche per centinaia di miglia. Dalle fiamme divampate in Russia, ad esempio, si sono sollevati dei pennacchi che hanno raggiunto l’Oceano Artico e latitudini settentrionali estreme.
Questo fenomeno può danneggiare gravemente la qualità dell’aria. Il fumo proveniente dalla Russia ha portato la concentrazione atmosferica di particolato sottile (PM2.5) a livelli pericolosi per la salute umana in una vasta area che interessa la Mongolia, la Cina nordorientale e il Giappone settentrionale.
Un altro elemento rilevante sono gli aerosol contenuti nel fumo. La densità ottica degli aerosols (AOD) misura quanto le particelle rilasciate in atmosfera dagli incendi riducono la percentuale di radiazioni solari che raggiungono il suolo. Un fumo particolarmente denso come quello osservato dal CAMS nella Russia orientale riflette maggiormente la radiazione causando -potenzialmente- un abbassamento temporaneo delle temperature.
Se questi aerosols, tuttavia, si depositano su superfici nevose o glaciali, ne causano l’“annerimento” andando a ridurre la loro capacità di mitigare l’aumento delle temperature e velocizzandone lo scioglimento.
Insomma, le conseguenze di questa stagione degli incendi sono già rilevanti a livello locale e globale, ma sono ancora parziali e ci si aspetta che si aggravino nella seconda metà dell’estate.
Annalisa Gozzi
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