Chi è responsabile del cambiamento climatico che sta modificando il volto bianco dell’Artico? I risultati (a sorpresa) del Sustainable Development Index.
Chi è il colpevole del cambiamento climatico? La risposta è ormai semplice, basta individuare quei Paesi che vestono la maglia nera per il loro carico di emissioni di CO2. Stati Uniti, Cina e India sono, secondo le statistiche globali, i primi tre Paesi a pesare insostenibilmente sul pianeta a causa della produzione dei gas serra.
Ma è davvero così immediato e utile trovare un “colpevole”? individuare i maggiori produttori di CO2 del pianeta non deve essere uno strumento utile a stilare una classifica di “buoni e cattivi” sostenitori della Terra, ma dovrebbe assolvere un ruolo centrale per lo sviluppo di un’economia più sostenibile, prima che tutti si trovino con i piedi nell’acqua e senza più cibo. Trovare i responsabili non è né semplice né utile, perché ogni nazione ha un lato meno verde, anche quelli più insospettabili.
Anche i paesi più verdi come Islanda, Svezia e Norvegia ai primi posti nel Ranking della sostenibilità, pesano sull’ambiente per le quantità di CO2 emesse come, di recente, ha dimostrato il Sustainable Development Index.
L’indice di Sviluppo Sostenibile mette agli ultimi posti proprio i Paesi artici. La notizia non dovrebbe destare particolari stupori per la valutazione di Canada e Stati Uniti, di cui l’impronta di CO2 è elevata, ma un dato potrebbe invece sconcertare chi legge. Non solo Svezia, Norvegia e Islanda sono rispettivamente 146esima, 157esima e 159esima su 165 Paesi, ma la Russia, che è nella top5 dei paesi emettitori di CO2, occupa in questa classifica la 63esima posizione, distanziandosi nettamente dagli altri Paesi polari.
Com’è possibile? La classifica boccia tutti i Paesi artici per le emissioni di CO2, dalla Danimarca alla Finlandia – dove il rispetto per l’ambiente si apprende anche prima di imparare a sciare – e premia la Russia, che solo negli ultimi tempi ha dimostrato preoccupazione per l’ambiente? Se l’indice non fosse corroborato da un metodo scientifico e presidiato da database prestigiosi come EORA MRIO potrebbe pensarsi ad una fake news ben congegnata. Ma l’SDI Index ha il solo difetto di essere vero.
L’SDI Index riporta tra i suoi indicatori le tonnellate di CO2 pro capite. La novità, rispetto ad altri indici che considerano le emissioni di CO2, è che in questo caso le tonnellate emesse sono quelle relative ai consumi delle famiglie. L’indice, cioè, fa i conti non con le emissioni prodotte sul territorio nazionale (che restano basse), ma sulle emissioni incorporate nei prodotti importati, dalla loro produzione nel Paese d’origine alla loro destinazione nelle case dell’estremo Nord.
Il problema delle emissioni di CO2 non riguarda solo settori come industrie o trasporti nazionali, ma anche i gusti e le preferenze dei cittadini. Paradossalmente, i dati associati alla domanda di beni delle famiglie, fanno percepire che i Paesi artici consumano più CO2 di quella che producono, (come dimostrato dai grafici.
Se nel calcolo delle emissioni di CO2 di una nazione si contano non solo le tonnellate emesse “in casa” ma anche quelle prodotte fuori dai suoi confini, il salto nel ranking della sostenibilità diventa una lente di ingrandimento sulla realtà. Dalla Danimarca alla Finlandia passando per gli Stati Uniti, le esigenze e le possibilità economiche delle famiglie aumentano il peso ambientale del proprio Paese. Solo la Russia ne esce “vincente”, perché i suoi residenti consumano meno CO2 rispetto a quella prodotta sul territorio.
C’è, inoltre, un’altra questione. Il carbon leakage: cioè, il dislocamento delle fonti di produzione di CO2. Anche le basse produzioni di CO2 su territorio nazionale possono nascondere una verità poco verde. Ed è così che si può capire una delle ragioni per cui, ad esempio, l’India è terza nel mondo per produzione di CO2, laddove è ultima per consumi di risorse ambientali.
Anche i Paesi dell’estremo Nord, modello di vita sostenibile per tutti, mettono a rischio il bianco dell’Artico con il suo ecosistema. Nessuna nazione industrializzata è davvero salvo dalla maglia nera delle emissioni. L’unico vantaggio è esserne consapevoli.
I dati raccolti sulla produzione di CO2 sono fermi al 2019, ma la questione non è archiviata al passato: è semplicemente ferma. Molte ricerche mettono in evidenza l’importanza che la raccolta di questi dati può avere per delle politiche verdi più performanti come la Carbon Border Tax che l’UE metterà in atto per i prodotti importati dal 2023. Ma basterà una tassa per ridurre il peso del benessere privato sul benessere dell’ambiente e dell’Artico?
Anna Chiara Iovane
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