Grandi mire economiche e geopolitiche si palesano nei tranquilli orizzonti islandesi. Saprà la piccola comunità pacifica barcamenarsi tra le ambiziose sirene? In questo post scopriamo insieme quali sono le principali risorse dell’economia in Islanda, tra pesca, turismo e logistica.
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L’Islanda è una piccola comunità, appena 350 mila anime. Abbastanza isolata dal resto della civiltà – il punto più vicino è la quasi disabitata Groenlandia, a meno di 300 km – ha dovuto ben presto far leva sulle proprie forze per il sostentamento. Nonostante l’alta latitudine, il clima è temperato, mitigato da un ramo della corrente del Golfo (quella di Irminger) che lambisce le coste meridionali e occidentali del paese.
Sebbene l’Islanda sia demograficamente uno degli Stati più piccoli al mondo, è tra le più importanti nazioni pescherecce.
Nelle sue acque si trovano alcuni dei maggiori stock ittici dell’Atlantico settentrionale: merluzzo bianco, capelin, aringa atlantico-scandinava, melù, scorfano atlantico, ippoglosso nero, pettinidi, scampi, gamberetti boreali, eglefino, merluzzo carbonaro e, più recentemente, lo sgombro. Quest’ultimo ha modificato la sua rotta migratoria in questi anni, espandendosi in maniera significativa in direzione nord-occidentale ed entrando nella zona economica esclusiva (ZEE) dell’Islanda.
Nel recente passato il mondo della pesca islandese ha attraversato acque tempestose: seguendo l’esempio degli USA, il governo decise unilateralmente di estendere la propria giurisdizione marittima (4 miglia nel 1952, 12 nel 1958, 50 nel 1971 e, infine, 200 nel 1975), provocando le contestazioni delle flotte straniere che lì svernavano (principalmente Gran Bretagna e Germania Ovest). In diverse occasioni i conflitti raggiunsero il livello di confronti diretti con la flotta militare britannica, noti come le “guerre del merluzzo” (1958, 1972-73 e 1975-76).
L’economia dell’isola ha registrato una sostanziale diversificazione nel 1994, dopo l’adesione allo Spazio economico europeo (SEE) e altri settori, in particolare il terziario e il settore manifatturiero, hanno conosciuto una rapida crescita.
Il turismo in Islanda è in continua espansione e sta insidiando il settore della pesca nel prodotto interno lordo. Nel 2016 1,8 milioni di persone hanno visitato il Paese (40% in più rispetto al 2015), mentre nel biennio 2017-2018 il numero di turisti ha superato due milioni di unità (45.000 circa sono italiani). Cifre tutt’altro che insignificanti, soprattutto se si tiene conto che l’Islanda è grande all’incirca un terzo dell’Italia e conta una popolazione pari a 1/170° rispetto al Belpaese.
La gestione sostenibile del turismo è una delle questioni più urgenti nell’agenda del governo, che mira a garantire la sostenibilità delle risorse naturali e a scoraggiare la tentazione della ricerca del profitto facile, preservando l’esperienza di viaggiare attraverso il paesaggio locale.
La priorità è quella di allargare ed espandere l’offerta anche al di fuori dell’area metropolitana di Reykjavik, favorendo la creazione di infrastrutture e servizi turistici direttamente nelle altre aree del paese che presentano notevoli attrazioni naturali.
Nel 2016, in un’ottica di sostegno allo sviluppo del settore, il Ministero delle Industrie e del Commercio, che ha competenza anche sul Turismo, la Icelandic Association of Local Authorities e la Icelandic Travel Industry Association hanno unito le forze per definire una strategia a lungo termine con l’accento sullo sviluppo sostenibile. Ne è nata la Road Map for Tourism in Iceland, gestita nel quinquennio 2016-2020 dalla Tourism Task Force con funzione di coordinamento e collaborazione tra istituzioni e associazioni di settore.
La valorizzazione dell’immagine del Paese come attrazione naturalistica va di pari passo con la diffusa sensibilità ambientale: è già due anni che le compagnie baleniere islandesi hanno interrotto l’attività a causa della concorrenza giapponese, della sfavorevole legislazione di controllo sanitario sul pescato, e dei crescenti costi logistici verso il Giappone stesso, mercato principale dell’export nazionale.
La diminuzione storica del consumo di balena nel mix della dieta giapponese (in Islanda la percentuale è scesa a un bassissimo 3%) testimonia l’anacronismo di un’attività che sta lasciando il passo al suggestivo business eco-friendly del whale watching.
Alcune tendenze di medio-lungo periodo nel cambiamento climatico e nell’espansione dei mercati asiatici, soprattutto quello cinese, potrebbero stravolgere il ruolo dell’Islanda nell’Artico e verso l’Europa.
Come noto, il Climate Change provoca un innalzamento delle temperature del Polo Nord superiore rispetto al resto del Globo. Effetto Albedo e Troposfera meno spessa (massimo 8 chilometri contro i 18 dell’Equatore, dunque più facile influire per i gas serra) amplificano il riscaldamento della zona, con importanti ripercussioni sull’emisfero boreale.
Le immagini della NASA hanno mostrato la continua erosione della calotta artica negli ultimi decenni. Il fenomeno ha riguardato non tanto i ghiacci stagionali quanto quelli più spessi. A sfavore dell’Artide gioca il fatto che è perlopiù banchisa, cioè un massa gelata galleggiante spessa al limite una manciata di metri, diversamente dalla quasi totalità di quella antartica, poggiante, invece, su terraferma.
Per il 2030 si prevede la navigabilità per tutto l’anno della NorthEstearn Route, che lambisce le coste settentrionali della Russia. Nel 2040, addirittura, si paventa la possibilità di attraversare il cuore dell’Artico lungo il Meridiano di Greenwich, l’avveniristica Transpolar Route: per i paesi asiatici significherebbe evitare il controllo russo dei traffici marittimi e accorciare ancora di più il tragitto verso il cuore dell’Europa. Tale ipotesi è meno futuribile di quanto possa sembrare.
Uno studio del 2017 della banca d’affari londinese Grisons Peak rivela che le aziende cinesi hanno annunciato piani d’investimento in nove porti d’oltremare per 20 miliardi di dollari. Riguardo la rotta artica, si accenna a progetti di costruzione di terminal container a Kirkenes, porto norvegese sul mare di Barents, ad Arkhangelsk, sul Mar bianco della Russia, e, infine, in uno o due siti in Islanda, come conferma anche Domenico Letizia nel suo recentissimo “La corsa all’Artico“.
Mutuando un termine logistico del comparto energia, si tratta di progetti “greenfield“, cioè in assenza di infrastrutture preesistenti. Dunque da costruire da costruire quasi da zero. Non solo porti. Per Arkhangelsk si parla anche di una ferrovia di migliaia di chilometri verso il cuore dell’Europa. La fattibilità su Kirkenes è collegata ad altre progettazioni costose e “ancora nella mente di Dio” (ferrovia merci Rovaniemi-Helsinki, tunnel Helsinki-Tallin dal 2030/2035, ferrovia baltica via Warszawa dal 2026). Senza contare che la tratta Kirkenes-Rovaniemi sconta le resistenze di una importante minoranza norvegese e finlandese, il popolo dei Sami.
Diverso il caso dell’Islanda. L’isola potrebbe essere un perfetto hub di transhipment, cioè di trasbordo. I mastodontici cargo Panamax (“navi madre” in gergo logistico) provenienti dall’Asia scaricherebbero i container, subito reimbarcati su navi cellulari (“feeder“) verso i principali scali europei: Rotterdam e Amburgo, che godono di una potenza di penetrazione di smistamento senza eguali in Europa (tanto che vengono preferite anche nella tratta da Suez), e poi gli scali inglesi e quelli scandinavi e iberici.
La localizzazione del Paese è ideale, costituendo una piccola deviazione dalle rotte di base (Europa anseatica, ma probabilmente anche Canada..). Si tratterebbe solo di costruire uno o due porti d’altura, quelli dedicati al traffico container, o ampliare la zona già predisposta tra Reykjavik e Hafnarfjörður. Una lunga banchina e servizi portuali dedicati. Un solo progetto portfolio, con diversi programmi e relativi progetti sovraintesi. E nessun’altra installazione civile, di lunga realizzazione e con ingenti costi lungi dall’essere ammortizzati.
Gli armatori avrebbero rapporti con un’unica autorità portuale, un singolo framework giuridico e un solo Governo: giusto ad aprile 2020, è stato firmato un contratto con l’operatore portuale tedesco Bremenports per iniziare la costruzione di uno scalo di trasbordo in acque profonde a Finnafjörður, (“The Finnafjord Harbour Project“) nel nord-est dell’isola.
L’Islanda, che ha da tempo rinunciato alle Forze Armate, derogando la Difesa a Paesi NATO amici, ha ben chiari i vantaggi del divenire terra contesa al limite tra diverse aree geopolitiche (l’Islanda non è nell’UE, avendone sospeso l’adesione, per poi firmare un accordo di libero scambio con la Cina nel 2015). E il Paese del Dragone, presente a Reykjavik con un’ambasciata (solo quattordici in Islanda) significativamente imponente, ha tutta la voglia di divenire amico dell’Islanda e gettare così un ponte importante verso il vero ventre molle del Nord Atlantico, la Groenlandia.
Marco Leone
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