La bioeconomia, secondo la definizione della Commissione europea, è il complessivo processo di “produzione, utilizzo e conservazione delle risorse biologiche, comprese le relative conoscenze, scienza, tecnologia e innovazione, per fornire informazioni, prodotti, processi e servizi in tutti i settori economici che mirano verso un’economia sostenibile”. Un tema decisivo in un ambiente come quello artico.
Destinata a svolgere un ruolo significativo nella transizione verde, da essa ci si attende il passaggio da un’economia basata sui combustibili fossili a quella sulle fonti rinnovabili e biologiche. Tuttavia, si pongono una serie di sfide. Che le risorse siano riutilizzate non significa che siano illimitate: soltanto una certa quantità può essere “coltivata” in modo sostenibile.
A livello globale, vediamo già concorrenza per la terra e la biomassa tra, ad esempio, il settore energetico e quello alimentare. Il Covid, come ogni crisi, accelera tendenze già in atto. Sarebbe illusorio pensare ad un salto tout-court dal carbonio al green, ma, senza dubbio, la coscienza collettiva ne esce con una più diffusa sensibilità riguardo le conseguenze di un’azione umana poco lungimirante sulla natura.
Responsabilità e progettazione di un nuovo modello di consumi non possono che investire le economie più avanzate, così dette anche perché già più avvezze a politiche di sostituzione energetica orientate verso una più bassa impronta ecologica. In ciò i Paesi scandinavi rappresentano indubbiamente storicamente degli apripista.
Il proto-ambientalismo nacque proprio in quelle latitudini, con il primo bosco sottoposto a salvaguardia, addirittura nel 1884, allorché attivisti norvegesi, professori e scienziati provenienti da circoli dell’alta borghesia cittadina, riuscirono a convincere le autorità di Larvik a mettere sotto tutela Bøkeskogen, la foresta di faggi selvatici più a nord del mondo.
Il recente rapporto “State of the Nordic Region 2020”, del Nord Council mostra come la regione nordica sia divenuta il leader europeo in termini di quota di energia rinnovabile pro capite. L’istituto è un consesso interministeriale scandinavo di coordinamento, peraltro sovrintendente l’area politica della bio-economia nell’ambito della strategia dell’UE per la regione del Mar Baltico.
Da pochi giorni ha pubblicato un rapporto sulla Bioeconomia, “Ten Trends. For a sustainable economy in the Nordic Arctic e Baltic Sea Regione”, ove se ne delineano le tendenze nell’area di riferimento. L’obiettivo è fornire ai responsabili politici dei Paesi scandagliati un vademecum per governare il cambiamento.
L’iniziativa si inserisce nella strategia aggiornata per la bioeconomia dell’Unione europea (Commissione europea, 2018), la quale fa riferimento a una capacità di creazione di 1 milione di nuovi posti di lavoro nel settore negli Stati membri. Si aspetta inoltre vantaggi significativi nella gestione naturale, dal cambiamento climatico al degrado del suolo.
L’ambizione è raggiungere la crescita con un minore impatto ambientale, creare occupazione e opportunità nelle aree rurali o costruire un’economia che sia meno dipendente dalle fragili catene del valore globali. La sfida e l’obiettivo è di diventare la prima regione climaticamente neutra al mondo.
I risultati del report si basano su una revisione della letteratura disponibile sul tema, interviste ad esperti, workshop con le parti interessate e un’indagine che ha coinvolto un totale di 350 professionisti in tutta la regione. Delle dieci tendenze, cinque fanno specificamente parte della bio-economia, le restanti sono macrotendenze sociali o tecnologiche che ne influenzano lo sviluppo. Eccone una sintesi ragionata.
Uno dei fattori limitanti per una bio-economia in crescita è la disponibilità di materie prime. I materiali non sono illimitati, ma comunque rigenerabili. Il primo passo è, quindi, incrementare l’utilizzo di “avanzi” o elementi di scarto dai processi industriali, in quantità ed efficienza, per realizzare nuovi prodotti.
La produzione annuale di biomassa nell’Unione europea è stimata in circa 1,8 miliardi di tonnellate. I flussi collaterali di biomassa disponibili ammontano a 314 milioni di tonnellate solo per l’agricoltura e la silvicoltura. Il termine “collaterali” descrive le parti della materia prima che non vengono usate per i manufatti principali, come i rami degli alberi e la segatura da legname, o le parti di pesce che non possono essere vendute separatamente, ma è il cibo che viene menzionato come il più consistente fattore per chiudere i circuiti (basti pensare all’elevata percentuale di spreco alimentare).
Il vettore è individuato in una simbiosi industriale in cui i rifiuti di un comparto vengono riciclati come materia prima da un’altro settore.
I biocarburanti hanno ricevuto notevoli investimenti e sostegno politico dall’UE sin dalle direttive sulle energie rinnovabili e sulla qualità dei combustibili del 2009 a causa del loro potenziale di sostituire i combustibili fossili. Tuttavia lo sviluppo è stato lento e solo la Svezia ha raggiunto l’obiettivo del 10%, doppiandolo.
Ciò si riflette anche nelle interviste raccolte, abbastanza divise sull’argomento. Alcuni vedono i biocarburanti come parte necessaria nella transizione; altri li ritengono un vicolo cieco che rischia di deviare risorse biologiche da altre lavorazioni in cui potrebbero generare maggior valore.
Altre voci più scettiche affermano che la produzione e l’utilizzo di biocarburanti rilascino ancora gas serra. Ciononostante, la crescente domanda di energia verde suggerisce che la generazione di etanolo e oli vegetali aumenterà entro il 2030.
Per secoli il branding dei prodotti indigeni, narrando della loro origine da una località speciale, è stato un driver di valorizzazione per un’ampia gamma di beni, dal merluzzo salato norvegese e islandese alle patate della piccola isola danese di Samsø.
Il marchio locale aggiunge qualità percepita ad una merce o ad un servizio conferendogli una storia accattivante sulla sostenibilità, sulle catene di approvvigionamento locali e su ciò che rende superiore la sua origine. Ciò consente ai produttori di addebitare un sovrapprezzo e ai consumatori di godere dei vantaggi aggiuntivi del sostegno di una determinata regione o filiera produttiva.
Gli intervistati vedono questa come un’inclinazione particolarmente forte nel settore alimentare, a partire dal biologico, con ottime prospettive per essere applicata in altri settori in maniera repentina, poiché richiede poca o nessuna ricerca o sviluppo di infrastrutture. Un esempio paradigmatico di business innovativo sono i REKO (acronimo dello svedese Rejäl Konsumtion, “consumo equo”), i gruppi alimentari locali che collegano direttamente i consumatori al produttore, senza intermediazione. Il tutto tramite gruppi chiusi sui social media, gestiti da volontari.
Le alghe stanno guadagnando attenzione sia nell’uso industriale che alimentare. Alcune contengono olio naturale molto elevato, ideale per oli cosmetici, biocarburanti, mangimi, fertilizzanti, prodotti chimici, zucchero e biomassa di terza generazione.
Un potenziale di versatilità significativo, ma ancora in una fase iniziale e ritenuto privo del necessario supporto politico ai fini dello sviluppo industriale (come gli agricoltori, gli allevatori di alghe hanno bisogno di sussidi per coprire i costi e la produzione di alto livello), nonostante importanti iniziative, come la rete di ricerca e sviluppo Blue Bioeconomy cofinanziata dall’Unione Europea, che vede la vegetazione acquatica.
Un totale di 41 siti sono attualmente operativi (Danimarca, Estonia, Isole Faroe, Islanda, Norvegia, Germania e Svezia) e danesi e norvegesi hanno la maggior parte dei distretti di macroalghe. Il vero plus è che riescono a creare biomassa senza aumentare la concorrenza per la terra.
Carne e latticini sono parte importante della dieta baltica e nordica. Tuttavia, i costi ambientali sono elevati (emissioni di gas a effetto serra, uso estensivo del suolo, dilavamento di nutrienti e conseguente eutrofizzazione) e una parte significativa dell’impronta ecologica proviene dai mangimi animali, spesso importati.
Occorre, inoltre, considerare l’aumento della popolazione mondiale tra i nove e i dieci miliardi entro il 2050. Fonti alternative e nuove di proteine per alimenti e mangimi occupano un campo relativamente recente e la ricerca è ancora in corso. Piante ricche di proteine come legumi ed erbe, così come insetti e alghe, sono tra le materie prime che hanno grande probabilità di sostituire la carne nel consumo umano e la soia importata nell’alimentazione animale.
Il rapporto Nordic Alternative Protein Potentials menziona i co-prodotti di erbe, legumi e semi di grano e olio, ma evidenzia anche l’alto potenziale di funghi, batteri, insetti e microalghe per il consumo umano e animale. Il fattore chiave è come cambiare le abitudini di consumo di proteine, in quanto il livelli di assunzione di carne rimane elevato in tutta la regione rispetto alla maggior parte del mondo (da 67 a 95 kg per persona annuali).
La bioeconomia non si sviluppa nel vuoto. Le possibilità di un ecosistema produttivo dipendono fortemente da tendenze sociali e tecnologiche. Lo studio ne ha individuate cinque.
L’uso delle tecnologie digitali può guidare i cambiamenti nei modelli di business, generare nuove entrate e creare opportunità di generazione di valore. La digitalizzazione può condizionare la bioeconomia in diversi modi: le risorse possono essere coltivate, trasportate, utilizzate e distribuite in modo più efficiente e gli investimenti pianificati per il loro utilizzo ottimale.
Grandi speranze vengono riposte nei vantaggi forniti dalle moderne tecnologie come il controllo remoto, il 5G, l’automazione e l’intelligenza artificiale in relazione al monitoraggio, alla pianificazione, alla raccolta e alla distribuzione. L’agricoltura, la produzione di legno, la bioraffinazione, la pesca e l’acquacoltura sembrano particolarmente promettenti.
La digitalizzazione può persino aiutare la crescita della bio-economia locale, fornendo ai produttori l’accesso a mercati molto più ampi tramite webshopping e social media.
I fondi pensione e altri grandi operatori istituzionali stanno spostando i loro soldi in investimenti a lungo termine nella sostenibilità (fece clamore in tal senso il Libro Bianco presentato nell’Aprile 2019 al Parlamento norvegese – Stortinget – da parte del Government Pension Fund Global, il ricchissimo fondo sovrano norvegese).
Ciò apre nuovi orizzonti di finanziamento per la bio-economia, in particolare progetti su larga scala, poiché i grandi investitori tendono a favorire un numero minore di impieghi ma di maggiore quantità di denaro allocato rispetto alle piccole cifre.
Per quanto aiutati dalla digitalizzazione, i sotto-settori della bio-economia non sfuggono alle classiche logiche industriali: per ottenere l’accessibilità di prezzo per i consumatori serve una certa “scalarità” – un volume adeguato – cosa possibile solo attraverso un’importante liquidità, soprattutto da parte degli agenti delle politiche economiche: gli Stati.
Una latente preoccupazione è manifestata nei confronti del greenwashing, ipocrita versione ecologica della social responsibility aziendale, il quale potrebbe dirottare risorse utili a reali policy di sostenibilità.
Con la tendenza post-1945 all’inurbamento, si prevede che molte aree extra-urbane e già scarsamente popolate nella regione nordica e intorno al Mar Baltico registreranno ulteriori cali della popolazione fino al 2030.
Ciò costituirebbe un ostacolo alla crescita della bio-economia nelle zone agricole, per via di una “fuga di cervelli” di manodopera qualificata verso le città. Altresì, la diminuzione del valore dei terreni rurali potrebbe incentivare l’espansione di nuove bioindustrie.
Le opinioni sono equamente divise in merito e i suggerimenti propongono di migliorare l’istruzione nelle zone campestri e di rafforzarne gli incentivi imprenditoriali. Ciò sottintende l’intervento del decisore pubblico.
Il nuovo “contratto” politico tra decisori ed elettori per una svolta ecologica nei consumi e nelle soluzioni energetiche è visto come un grandissimo volàno per la bioeconomia, nonostante alcuni intervistati abbiano espresso timori per la mancanza di attenzione nei riguardi del settore nel documento dell’UE presentato alla fine del 2019.
L’elettricità sta sostituendo la combustione in molti aspetti del sistema energetico, dal teleriscaldamento alle automobili. L’elettrificazione potrebbe avere effetti ambivalenti sulla bioeconomia: da una parte aumenterà forse a breve termine la domanda di produzione di energia da biomasse, ma a lungo termine potrebbe ridurre la domanda di biomassa solida per calore ed energia.
Così si avrà potenzialmente energia rinnovabile a basso costo che può abbattere quello della raffinazione della biomassa in prodotti di alto valore come carburanti per jet neutri, gas, plastica, come prefigurato da progetti come Power-to-X, ove l’elettricità generata in eccesso viene utilizzata per la creazione di altri tipi di energia.
Ma l’apporto digitale all’efficienza delle reti comporterà il fenomeno della concorrenza dell’elettrico nei confronti della biomassa, riducendone la necessità nel riscaldamento, nella generazione di elettricità e nei biocarburanti.
L’attuale pandemia rimescola consistentemente il mazzo del futuro della bio-economia. Gli effetti si prospettano come controversi. Alcuni pro, come la # 6 Digitalizzazione, che sta registrando una forte accelerazione, o il # 3 Branding locale che gioverà della incipiente tendenza al reshoring delle catene di approvvigionamento globali, esposte e vulnerabili durante questa crisi.
La # 8 Urbanizzazione avrà probabilmente un rallentamento, sia per ovvi motivi di sorgente esigenza di profilassi tramite il distanziamento sociale sia per le possibilità che lo smart working fornisce a chi aspira una qualità della vita che solo contesti più rurali offrono.
Per il resto, la grande incertezza è su come la crescita della bioeconomia sia in grado di essere implementata durante un periodo di declino economico. La trasformazione continua richiede finanziamenti e attenzione politica, difficili da attirare qualora le priorità si spostassero su altre aree più fortemente colpite dalle conseguenze economiche del lockdown.
In generale, l’intera vicenda ha avuto il merito di diffondere la sensibilizzazione sulla necessità di un mutamento di archetipo di consumo energetico atto ad evitare future problematiche virologiche indirettamente figlie dell’azione umana sulle dinamiche naturali e animali.
Ciò si abbinerebbe alla montante consapevolezza dei consumatori dell’impatto ambientale e sociale delle loro abitudini. E dalla Scandinavia, terra d’elezione di Greta Thunberg, ci si attende un ruolo da apripista e da traino morale nella transizione ecologica in un pianeta che non potrà permettersi una futura classe media orientale con abitudini di consumo occidentali.
Marco Leone
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