Ogni anno l’ONU redige il World Happiness Report, una valutazione della felicità dei diversi paesi del mondo, basandosi su parametri di reddito, aspettativa di vita, sostegno sociale, libertà, fiducia e generosità. Il rapporto del 2019 conferma lo storico trend che vede ben sei tra i primi nove paesi con il più alto tasso di felicità al mondo situati nella zona Artica (Finlandia, Danimarca, Norvegia, Islanda, Svezia e Canada), di cui quattro nelle primissime posizioni.
Il report collima curiosamente con un’altra classifica, quella stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sul tasso dei suicidi nel mondo, il cui unico lato positivo è che la popolazione artica coinvolta costituisce un numero esiguo rispetto all’ammontare mondiale.
Infatti, le percentuali dei suicidi in Norvegia, Russia, Canada, Danimarca, Finlandia e Svezia risultano doppie rispetto a paesi che vivono una crisi economica decennale, come Italia e Grecia, quest’ultima con momenti molto traumatici. I popoli della regione sono coscienti di tale triste casistica, con tanto di appositi programmi nazionali di prevenzione dei suicidi, ma le cause risultano essere molto differenti a seconda del tipo di cultura in cui si verificano.
Uno studio condotto nel 2018 dal Nordic Council of Ministers, un forum di cooperazione tra i governi di Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda, ha analizzato i sintomi di questo vero e proprio problema. Il sunto delle conclusioni raggiunte dal report è il seguente: la felicità non è distribuita in modo uniforme.
Nonostante il diffuso livello di benessere il 12.3% della popolazione riporta bassi livelli di soddisfazione di vita. Le fasce di popolazione più vulnerabili sono i giovani (18-23 anni) e gli over 80. Il 13.5% dei giovani e il 16% degli anziani riportano i livelli più alti di infelicità e sofferenza psicologica (in particolare in Danimarca il 18.3% dei giovani ha problemi psicologici, e in Norvegia questi sono aumentati del 40% in 4 anni).
Perchè la percentuale di suicidi e depressione in queste regioni è così alta?
Negli ultimi anni è stato osservato anche un aumento delle cattive condizioni di salute mentale. Tra i giovani in generale, sia donne che uomini, viene sottolineata la mancanza di contatti sociali. In quasi tutte le fasce d’età, i maschi – in particolare quelli più anziani – sono i meno attivi socialmente, cosa che è associata all’infelicità. Al contrario, le persone più religiose sono anche le più felici. Infatti, in tutti i paesi nordici, le persone religiose sono risultate più felici anche quando non hanno migliori livelli di reddito rispetto agli atei o alle persone “moderatamente” religiose.
La componente religiosa e spirituale risulta essere, invece, il terreno principale di crisi nell’identità delle popolazioni autoctone. Dagli Inuit, o Eschimesi, del Canada (Labrador nord, Nunavik, Northwest Territories e Nunavut), della Groenlandia e della punta nord-orientale della Siberia, alle popolazioni autoctone delle Isole Aleutine e della regione russa della Kamčatka, fino ai Tungusi, o Evenchi, distribuiti tra Siberia, Mongolia e Manciuria, e ai Sami o làpponi, divisi tra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, esiste una caratteristica comune: vivere di caccia, pesca, raccolta e allevamento.
Le popolazioni indigene di queste regioni vivono oggi la maggiore rivoluzione economica. Negli ultimi secoli gli usi e le tradizioni, oltre alle basi economiche e di sostentamento, erano rimaste pressoché identiche. Negli ultimi anni, invece, il mondo è riuscito a pervadere anche queste società.
Le popolazioni indigene vivono un rapporto simbiotico con la Natura sublimato dallo sciamanésimo, un complesso di credenze e pratiche rituali (riscontrabili anche in altri contesti etnografici) imperniate sulla figura dello sciamano, una sorta di capo carismatico investito di responsabilità collettive, mediatore tra la comunità e gli spiriti, stregone e terapeuta ritenuto capace di provocare malattie, oltre che di guarirle. La sua funzione principale è quella di assicurare la ‘fortuna’ nella caccia, in base all’idea che gli esseri naturali di cui si nutre l’uomo (selvaggina, pesci, piante) siano dotati anch’essi di una componente spirituale.
Le realtà indigene poggiavano, quindi, su un rapporto spirituale armonico e complementare con il Tutto che le civiltà allogene hanno rotto, portando una mentalità dicotomica tra Uomo e Natura, in cui il primo domina la seconda. L’interruzione di antiche tradizioni di vita e la diffusione della piaga dell’alcol hanno reso vulnerabile il sistema nervoso di dette popolazioni, con evidenti risultati negativi: bassa speranza di vita, alto tasso di suicidi e forte livello di alcolismo.
Emblematico è il caso degli Inuit groenlandesi, che annoverano il più alto tasso di suicidi conosciuto al mondo. Tra il 1970 e il 1980, tale triste statistica è quadruplicata a circa sette volte quella degli Stati Uniti (oggi è ancora circa sei volte superiore). L’entrata a gamba tesa da parte di logiche economiche e industriali hanno rotto un equilibrio sociale secolare. Il governo danese ha introdotto società commerciali e pescherecci da traino, minando la tradizionale economia nei piccoli villaggi locali, basata sulla caccia e il commercio collettivi di carne e pelli. Il riscaldamento globale, fenomeno accentuato nell’Artico (probabilmente anche più di quanto si pensi, stando a recentissimi studi), sta dischiudendo lo scrigno groenlandese agli appetiti delle Major.
Non solo idrocarburi, ma anche le cosiddette “Terre Rare”, di cui i cinesi hanno sviluppato una propria formula di lavorazione, elementi sempre più richiesti nelle applicazioni della tecnologia odierna, dagli schermi dei cellulari, alle batterie elettriche, fino alla componentistica missilistica di precisione. Nel suo “Artico, la battaglia per il Grande Nord” (2018, Neri Pozza editore, Vicenza), Marzio Mian testimonia l’interesse delle compagnie minerarie, dalla svedese Lkab (olivine, usata nelle acciaierie), la canadese Quadra Mining (molybdeno), i norvegesi della LNS (rubini), l’australiana co-partecipata dai cinesi GME (uranio), la China Ninferrous (zinco) e colossi mondiali come BHP Billiton, Rio Tinto, Anglo-American e Xstrata che intraprendono carotaggi ed esplorazioni in sito.
Attività che comportano importanti ricadute ambientali, cosa aggravata dal fatto che le “Terre rare” non devono il proprio aggettivo a una effettiva scarsità, bensì ad una loro bassa concentrazione nel materiale estratto, con conseguente utilizzo di maggiore energia e di agenti chimici inquinanti (per le falde acquifere e l’ecosistema marino in cui verranno sversati), necessari per la processazione. Il fatto che la Groenlandia abbia una bassissima densità di popolazione e che sia geograficamente “fuori mano” potrebbe agevolare il processo di delocalizzazione delle attività industriali inquinanti dal Primo al Terzo Mondo, in cui potrebbe ricadere la terra degli Inuit, la cui verginità ambientale sarebbe sacrificata per assicurare la transizione ecologica nei Paesi OECD e in Cina. Insomma, la colonizzazione sta portando la maggioranza delle comunità autoctone ad abbandonare del tutto o in parte il proprio stile di vita originale. Anche se oggi alcune popolazioni stanno cercando di recuperare usanze e tradizioni, la civiltà degli allevatori di renne, dei cacciatori di mammiferi marini e dell’uomo in armonia con l’ambiente rischia di scomparire per sempre.
Il male oscuro dell’Artico non distingue né età né classe sociale. I programmi statali di prevenzione al suicidio, da ultimo quello alaskano, puntano sull’inclusione e senso della comunità. Ma le alte percentuali del fenomeno testimoniano che l’armonia interiore di popoli secolarmente abituati a vivere in simbiosi con la Natura è stata rotta da dinamiche esogene, che lo scioglimento dei ghiacci e la conseguente penetrazione dell’opportunistica logica del profitto non potranno che aggravare.
Marco Leone
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Ancora uno volta un articolo profondo e ricco di stimoli e riflessioni. Complimenti a Marco Leone
Buongiorno Leonardo
Mi chiamo Donini Giorgio, sono cittadino Italiano residente in USA e ho molto apprezzato il suo articolo sui paesi nordici
Molto ben scritto ed esaustivo e mi piacerebbe ricevere altri suoi articoli ma non uso Facebook ne Twitter.
Mi può dire dove scrive i suoi articoli e come riceverli?
La ringrazio in anticipo
Cordialmente la saluto
Giorgio Donini
Buongiorno Giorgio! Ti ringrazio! Il nostro sito è sempre aggiornato e a tua disposizione, ma se mi dai il tuo via libera posso anche inserire la tua mail nella mailing list della newsletter, così ti arriveranno sempre aggiornamenti mensili. Aspetto tue e ti ringrazio!
Bellissimo articolo!
Complimenti a Marco Leone
So che non è invenzione dell’autore, da altre parti si cita il riscaldamento globale come motivo dei suicidi. Opinione non avvalorata dai dati e quindi assimilabile a una bufala. Quello dell’estremismo ecologista che ragiona su bas ideologiche e non scientifiche, inventando fenomeni causati dal riscaldamento globale, è pure più dannoso e pericoloso dei negazionisti. Paradossalmente bastava legger i dati. Se il tasso di suicidi tra gli inuit era sette volte quello americano già negli anni 70 80 (e oggi è sei volte) la risposta viene da se
Gentile Cirus, il tema non è certamente dei più facili. Alcuni studi riportano come il cambiamento climatico impatti già oggi sulla condizione di salute mentale di molti territori, anche alle nostre latitudini. Altri si spingono oltre, affermando che il riscaldamento globale andrà a incidere in maniera negativa sul numero di suicidi: https://news.stanford.edu/2019/03/29/effects-climate-change-suicide-rates/
Il tema è complesso anche perché non si possono avere dati esatti sulla materia, ma la riflessione rimane. Ovvero: se il territorio intorno a noi muta rapidamente (immaginiamo di vivere in luoghi particolarmente difficili, come appunto l'Artico) e l'economia della comunità di riferimento è basata su determinati aspetti (caccia, pesca, commercio) che vengono drasticamente modificati, come si può affermare che non ci siano correlazioni indirette fra il riscaldamento globale e il disturbo mentale?