Acqua & terra

Deep Sea Mining, la caccia al tesoro in fondo al mare

Il “Deep Sea Mining” è una pratica estrattiva che ha goduto di grande interesse a livello mondiale durante l’ultimo anno. Attualmente non è consentito in acque internazionali, ma possibile entro i confini del proprio Paese: è proprio questo che ha deciso di fare la Norvegia.

La corsa alle materie prime critiche

Nel gennaio del 2024, il Parlamento Norvegese ha approvato la proposta fatta al governo dal Ministro del Petrolio e dell’Energia per rendere possibile l’esplorazione di un’area di 280 000 km2 che si estende fino ai territori delle Svalbard e Jan Mayen. Come spiegato dal ministro Terje Aasland, inizialmente verranno solo concessi permessi “per mappare ed esplorare minerali in un’area limitata per scopi commerciali”, come definito dal Seabed Minerals Act, emanato dal governo nel 2018 con l’obiettivo di regolamentare le attività relative alla piattaforma continentale norvegese.

Precedenti ricerche avevano condotto al ritrovamento di riserve minerali sotto forme differenti, quali croste di manganese e depositi di sulfuri, che contengono alte concentrazioni di elementi d’interesse economico quali zinco, cobalto e rame, oltre che alla presenza di altre terre rare. Tali minerali “critici” sono infatti ritenuti indispensabili per il progresso tecnologico e la transizione energetica.

E proprio le politiche messe in atto per favorire la decarbonizzazione hanno aumentato a dismisura la domanda per queste materie prime. Ad esempio, come segnalato dalla “International Energy Agency”, una normale macchina elettrica richiede sei volte la quantità di minerali utilizzati in una macchina tradizionale. Il futuro – e presente – approvvigionamento delle terre rare ha quindi favorito l’esplorazione e la ricerca delle risorse contenute nei fondali marini.

Una transizione controversa

Il dibattito su questo tema è acceso in tutto il mondo: alcuni sostengono che il Deep Sea Mining (termine che corrisponde a Seabed Mining, specificamente in acque profonde) possa essere una pratica rivoluzionaria per la transizione ecologica così da far venire a meno tutti quelli che sono i “contro” dell’estrazione mineraria “onshore”, come deforestazione, sfruttamento degli operatori, rilascio di fumi tossici, disturbo della flora e fauna locale, e in generale, inquinamento sia di suolo che aria.

Quanto rende il tema ulteriormente interessante sono le stime sui contenuti dei depositi sottomarini. La crescente richiesta di tali materiali è stimata ad arrivare a 225,360 tonnellate nel 2026, rispetto alle 110,000 tonnellate segnalate nel 2018. Un netto raddoppio della domanda nell’arco di neanche un decennio.

La spinta alla decarbonizzazione ha aumentato notevolmente la richiesta di materie prime critiche,
come i metalli necessari a produrre le auto elettriche.

Il fondale, secondo le ricerche più recenti, potrebbe contenere 270 milioni di tonnellate di nickel, 230 milioni di tonnellate di rame e 50 milioni di tonnellate di cobalto, che potrebbero quindi aiutare il sostentamento globale, dando man forte alle riserve presenti sulla terra ferma. Nel caso del “mining offshore”, secondo i difensori della pratica, si potrebbe invece semplicemente “pescare” il materiale dal fondo del mare.

Tuttavia, il timore diffuso fra chi si oppone è l’impatto che queste operazioni possano avere sull’ecosistema marino. Infatti, mentre è abbastanza chiaro il danno che l’estrazione potrebbe provocare sulla stabilità dell’habitat marino interessato, sono gli effetti a lungo termine e la loro estensione a non essere ancora certi. 

L’oro non sempre luccica

Sul fondale marino si trovano tre concrezioni minerarie d’interesse estrattivo: i noduli polimetallici o “di manganese”, le croste di cobalto e i solfuri. Ognuno di questi ha condizioni di formazione e proprietà differenti.

I noduli di manganese si trovano nei bacini profondi dove c’è scarsa sedimentazione, e quindi il fondo “cresce” a velocità bassissime, fino ad 1mm ogni mille anni. Questo permette la formazione dei noduli sul fondale tramite la precipitazione particolarmente lenta di metalli. Il processo estrattivo implica quindi la disgregazione della superfice superiore del sedimento, con la rimozione dei noduli.

Non senza conseguenze: vari esperimenti hanno dimostrato che le specie marine che abitano le aree interessate mostrano un ritorno lento nel loro habitat d’origine, e potrebbe dunque mostrare un alto impatto ecologico se effettuato su una combinazione più ampia di località.

Noduli di manganese,
Foto di NOAA Office of Ocean Exploration and Research,
2019 Southeastern U.S. Deep-sea Exploration

La complessità dei fondali

Il fondo del mare è più complesso di quanto non si possa pensare: presenta zone estremamente profonde, come la conosciuta “fossa delle Marianne”, ma allo stesso modo è costituito anche da montagne sottomarine dette “seamounts”. I seamounts sono abitati da una fauna ancora non studiata approfonditamente , che include numerose specie, spesso con tassi di crescita e riproduttivi molto lenti. Questo può essere un importante dato quando si valuta la ripresa degli ecosistemi dopo il passaggio di macchinari per l’estrazione.

Una fumarola nera

Le montagne sottomarine sono infatti aree interessanti per il Deep Sea Mining proprio per la lentezza della sedimentazione, in modo simile ai noduli. La pressoché assenza di sedimentazione data dalle costanti correnti che attraversano queste aree permette una lenta crescita di “croste”, causata dalla precipitazione di minerali dall’acqua marina sovrastante. Le croste di cobalto possono raggiungere spessori di 26 cm, e ricoprire l’area superficiale dei seamounts. 

Ma l’irregolarità del suolo non è l’unico problema che si può incontrare. Nel 1977, durante un’operazione volta allo studio del fondale marino effettuata dalla National Oceanic and Atmospheric Administration, si notarono degli «anomali» fumi neri: oggi sappiamo che sono il prodotto dell’attività delle “Fumarole Nere” o “Black Smokers”.

Queste bocche idrotermali sono formate e alimentate dall’interazione dell’acqua marina con il calore derivante dai margini di placca oceanica. La difficoltà estrattiva è maggiore in queste zone data l’elevata temperatura che caratterizza i siti. Ma anche laddove si riuscisse a identificare un’area sufficientemente adatta all’estrazione di materie prime critiche, restano forti dubbi sugli impatti che avrebbe sull’ecosistema marino.

Le ripercussioni sull’ambiente marino

I “pennacchi di sedimento” sono fenomeni causati dall’attività dei macchinari utilizzati per l’estrazione che interessano gli studiosi. I macchinari sollevano una grande quantità di sedimenti che, data la loro elevata densità e miscelazione con l’acqua circostante, porta alla formazione di una colonna d’acqua che si comporta come un fluido separato, diffondendosi sotto il suo stesso peso e generando un fenomeno detto “corrente di torbidità”.

Questi pennacchi potrebbero trasportare complessi metallici intrappolati nei sedimenti, rilasciati quindi poi nella colonna d’acqua in concentrazioni tossiche per la fauna marina, effetto ulteriormente rischioso data la possibilità di diffusione di tali sostanze su aree estese.

Esempio di un sistema di estrazione di solfuri su larga scala dai fondali marini e relative fonti di potenziale impatto ambientale. Fonte: Flickr.com/GRID-Arendal

Diversi team di ricerca stanno approfondendo questo tema per avere una migliore comprensione sugli effetti e movimenti dei “sediment plumes” in acque profonde. Ma vi sono altri rischi legati al Deep Sea Mining, fra cui l’acqua di scarto prodotta nel processo d’estrazione, potenzialmente dannosa.

Rischi anche per la pesca

La contaminazione dell’ambiente marino è indubbia, causata dal movimento e dalla rimozione del suolo, oltre che dalla luce e i rumori anomali all’habitat. I rischi possibili legati a questa pratica non sono infatti ristretti al fondale. Le ripercussioni possono anche verificarsi in tutto l’ambiente marino e specialmente nel settore della pesca, dati gli effetti di prodotti in rilascio dannosi in ampie aree. 

L’oceano è inoltre essenziale nel bilancio termico terrestre, assorbendo il 25% delle emissioni di anidride carbonica, grazie anche al ruolo centrale svolto dai microrganismi a livello del fondale. L’alterazione dell’ecosistema del mare profondo potrebbe andare a modificare questo fenomeno, riducendo le abilità dell’oceano di mitigare l’aumento della temperatura a seguito dell’effetto serra.

Appare quindi paradossale come un’eccessiva spinta alla decarbonizzazione e alla transizione energetica, con il conseguente picco di domanda di materie prime critiche, potrebbe portare ad adottare pratiche altamente invasive sull’ambiente come il deep sea mining.

Norvegia e Groenlandia al centro della questione

La stima delle risorse del “Norwegian Offshore Directorate“, che copre aree remote del Mar di Norvegia e del Mare di Groenlandia, indica una quota pari a 45 milioni di tonnellate di zinco e 38 milioni di tonnellate di rame: quasi il doppio del volume estratto a livello globale ogni anno. Giacimenti immensi che potrebbero regalare ad alcune nazioni una leva di crescita e di potere decisionale non indifferente, così come potrebbero esserne la maledizione.

All’inizio del 2024 il parlamento norvegese si è assicurato la maggioranza per l’approvazione del piano di apertura del Mare di Barents e del Mare della Groenlandia all’esplorazione mineraria dei fondali marini. Un’apertura storica all’esplorazione di circa 280mila chilometri quadrati di fondali marini artici, che consentirebbero a Oslo di mantenere una vita dorata, diversificando gli investimenti in estrazione di greggio e gas che ne hanno reso una delle nazioni più ricche del mondo.

Decine di milioni di tonnellate di cobalto, manganese, ma anche fosfati e silicati, a cui sarebbero legate le terre rare, così preziose per l’economia del prossimo futuro.

Elena Ciavarelli

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Elena Ciavarelli

Sono una studentessa del corso triennale di Scienze Geologiche presso l’Università Statale di Milano. La mia passione per l’Artico nasce dalla natura e dallo studio delle lingue scandinave

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