Nonostante le enormi difficoltà nel raggiungere un accordo, COP29 ha portato a casa un nuovo obiettivo di finanza climatica. Tuttavia mancano all’appello 1000 miliardi di dollari.
Un summit difficile fino all’ultimo
La ventinovesima Conferenza delle Parti sul clima dell’UNFCCC è giunta al termine a Baku, Azerbaijan, in tarda notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre, con più di un giorno di ritardo sul programma. Ormai rispettare i tempi è più l’eccezione che la regola alle Conferenze ONU sul clima tant’è che un sondaggio lanciato da Carbon Brief in sala stampa aveva rivelato che una chiusura con 3 giorni di ritardo era considerata più plausibile di una chiusura puntuale.
Questo dato ci dice che l’obiettivo di raggiungere un accordo (quasi) globale in due settimane su dossier così polarizzanti e con tutto il rumore che si genera attorno alle COP– ormai diventate mega eventi con decine di migliaia di accrediti–è una scommessa sempre più rischiosa.
Dai risultati delle elezioni statunitensi e la conseguente condanna a una ritirata degli USA dall’Accordo di Parigi, all’ignavia dell’Unione Europea che invece di riempire questo vuoto di leadership ha giocato al ribasso e tenuto il dito puntato sulla Cina. Dal fronte unito di Arabia Saudita & co. contro la concretizzazione del famoso transitioning away dai combustibili fossili raggiunto a COP28 alla teologia fossile del presidente azero Ilham Aliyev (e non solo).
A COP29 la già fragile fiducia nelle capacità della cooperazione globale sul clima ha subito colpi duri, potenzialmente fatali.
Il più emblematico è indubbiamente lo scarso accordo raggiunto in extremis sul new collective quantified goal (NCQG), l’obbiettivo di finanza climatica post-2025 che andrà a sostituire quello dei 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 (raggiunto solo nel 2022).
Noccioline di finanza climatica
La richiesta dei paesi in via di sviluppo è stata chiara fin dall’inizio del summit: $1300 miliardi l’anno fino al 2030 con uno zoccolo duro di finanza pubblica (statale), sotto forma di sovvenzioni a fondo perduto, e con delle quote ad hoc per alcuni gruppi di paesi maggiormente in difficoltà.
L’ultima bozza presentata dalla presidenza azera prima dell’accordo parlava di $250 miliardi l’anno e aveva scatenato reazioni iraconde per la sua inadeguatezza. Tasneem Essop, direttore esecutivo di Climate Action Network International (CANI) l’aveva definita uno scherzo, “noccioline”.
Dopo negoziati molto accesi ai tempi ultra-supplementari, si è scesi a un accordo che prevede di raggiungere la cifra di $300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 attingendo a un mix di fondi (pubblici e privati, bilaterali e multilaterali) ed erogando i finanziamenti sia sotto forma di prestiti che di sovvenzioni a fondo perduto. Per quanto riguarda i paesi contribuenti, la proposta fortemente spinta dall’Europa di estendere l’onere anche economie di recente sviluppo come la Cina non è stata raccolta nonostante avesse trovato eco da parte di alcuni leader del Sud Globale. Questi paesi potranno comunque continuare a partecipare su base volontaria.
La famosa cifra dei $1300 miliardi rimane nell’accordo solo a titolo simbolico, come “un invito” ai paesi più ricchi di fare il possibile per raggiungerla, anche grazie alla creazione di una “Roadmap da Baku a Belém”.
Tina Stege, inviata per il clima delle Isole Marshall, un paese a cui stessa presenza sulle carte geografiche è minacciata dalla crisi climatica per via dell’innalzamento del livello del mare, ha detto: “Andiamo via con una piccola porzione della finanza di cui i paesi climaticamente vulnerabili hanno urgentemente bisogno”.
Il silenzio degli innocenti
Dopo l’adozione dell’accordo su NCQG, diversi paesi del Sud Globale sono intervenuti per sottolineare che pur avendolo sottoscritto rimangono fortemente contrari alle modalità dello stesso. Un intervento in particolare ha scosso la plenaria notturna (sebbene non abbia alterato l’esito dell’accordo) ed è stato quello di Chandni Raina, consigliera presso il Dipartimento degli Affari Economici dell’India.
Raina ha dichiarato: “Questo importo è una somma insignificante e non qualcosa che permetterà un’azione favorevole per il clima,” e ha condannato l’infrazione della procedura dal momento che aveva chiesto la parola prima dell’adozione del testo, ma non è stata ascoltata.
Questo presunto abuso della presidenza azera dei propri poteri per attuare le voci critiche non è stato un caso isolato. Nel weekend tra la prima e la seconda settimana dei negoziati, gli attivisti presenti a COP29 si sono visti negare il permesso di organizzare un corteo poiché la configurazione della venue non avrebbe consentito la sicurezza necessaria.
Relegati in uno spazio circoscritto in una stanza plenaria semivuota, i manifestanti hanno potuto portare la protesta nei corridoi della COP solo a patto di “non alzare la voce”. Le immagini degli attivisti che schioccano le dita e mugugnano quello che avrebbero voluto gridare hanno fatto il giro della rete mettendo in luce–se ce ne fosse stato ancora bisogno– i pesanti squilibri della presidenza.
La COP della finanza ma non solo
Reazioni ambivalenti sui crediti di carbonio
Un risultato importante raggiunto a Baku è la piena attivazione dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi dopo dieci anni di difficili negoziazioni. L’Articolo 6 ha l’obiettivo di garantire mercati del carbonio affidabili e trasparenti secondo regole condivise e sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
Da un lato sono stati fatti alcuni compromessi che hanno depotenziato l’accordo e la società civile fa notare con preoccupazione l’assenza di garanzie sufficienti sulla credibilità dei crediti in termini di mitigazione delle emissioni e sulla tutela dei diritti umani. Dall’altro l’adozione di regole condivise sotto il cappello ONU e la possibilità che questi mercati riducano il costo dell’implementazione dei piani climatici nazionali (NDCs) anche di $250 miliardi all’anno sono sicuramente note positive.
Le due facce dell’azione climatica: mitigare e adattarsi
Progressi sono stati fatti anche sul fronte dell’adattamento, dove i paesi hanno raggiunto un accordo sugli indicatori da includere nel nuovo quadro globale che servirà a misurare i progressi in termini di preparazione dei territori e delle comunità per affrontare gli impatti della crisi climatica.
Dall’altro lato della medaglia, quello della mitigazione, sembra quasi che il focus totalizzante sulla finanza abbia fatto il gioco di quei paesi che sono molto restii a parlare dell’elefante nella stanza che è stato chiamato per nome solo l’anno scorso a Dubai: i combustibili fossili.
I combustibili fossili non sono nominati nel testo finale del Programma di Lavoro sulla Mitigazione, mentre il tavolo negoziale sulla concretizzazione dell’impegno finale di COP28, il cosiddetto “UAE dialogue”, non è arrivato a un accordo ed è stato rimandato all’anno prossimo.
Parità di genere e clima
Sul tema del nesso tra clima e parità di genere, Paesi Arabi, Santa Sede e Russia hanno fatto molto ostruzionismo sull’uso di alcuni termini cruciali. Se la parola “gender” per fortuna è rimasta nel testo finale, “intersezionalità” e “diversità” non ci sono.
Usare le parole giuste è fondamentale, soprattutto quando sono scritte in testi con un peso politico come quelli prodotti alle COP, perché le parole usate corrispondono alle sfumature dei problemi riconosciuti come validi.
Alcune note positive sono state il rinnovo per un altro decennio di un programma di lavoro ad hoc sul tema (Enhanced Lima Work Programme on Gender), che promette di continuare a lavorare per l’integrazione dell’equità di genere nell’azione climatica, e il riconoscimento della questione di genere anche nel nuovo obiettivo di finanza climatica.
Non c’è ventinove senza trenta?
Alla luce degli esiti presentati, una domanda potrebbe sorgere spontanea: le COP hanno ancora senso?
La risposta di un gruppo di madri e padri fondatori della scienza e della diplomazia climatica tra cui Alan Gore e Christiana Figueres, è contenuta in una lettera aperta mandata alle Nazioni Unite proprio durante il vertice di Baku e si può riassumere così: sì, a patto che vengano riformate.
I negoziati di Baku sono stati estremamente complessi, polarizzati, inquinati. I risultati sono insufficienti, problematici, contestabili.
Eppure, il sistema delle COP rimane l’unico spazio in cui 198 paesi si riuniscono regolarmente per discutere di un problema universale ed esistenziale di cui non tutti hanno la stessa responsabilità e da cui non tutti sono impattati allo stesso modo. Alle COP, diversamente da vertici come il G20, anche chi ha meno responsabilità ma è più impattato ha una voce.
Uno spazio simile è troppo importante per non essere aggiustato. Sarà per la prossima volta?
Annalisa Gozzi