L’11 novembre è iniziata a Baku la ventinovesima conferenza annuale ONU sul clima, Cop 29. In quella che è stata definita “la Cop della finanza”, frustrazione e sfiducia sono palpabili, ma è necessario trovare un accordo.
L’11 novembre ha avuto inizio a Baku Cop 29, la ventinovesima conferenza globale che ogni anno riunisce i paesi firmatari della Convenzione Quadro ONU sul cambiamento climatico (UNFCCC). Questo è il terzo anno di fila che il più importante summit internazionale sul clima si svolge in un “petrostato”, un paese la cui economia è intimamente legata all’estrazione e al commercio dei combustibili fossili (in ordine Egitto, Emirati Arabi Uniti, Azerbaijan).
Nel caso dell’Azerbaijan (che esporta circa il 20% del suo gas in Italia), questo legame sarebbe perfino divino secondo il presidente Ilham Aliyev che ha definito più volte, prima e durante il summit, le riserve di gas del suo paese “un dono di dio”. Per non farsi mancare niente, Elnur Soltanov, ministro per l’energia e capo esecutivo di Cop 29, è stato coinvolto in un’inchiesta-trappola e registrato mentre acconsentiva a facilitare dei negoziati favorevoli al settore oil and gas.
Insomma, le premesse di questa Cop, che segue l’accordo storico raggiunto a Dubai l’anno scorso per una “transizione dai combustibili fossili”, non sono state le migliori. Molti l’avevano definita una Cop “di transizione”, un riempitivo fino al vertice emblematico del 2025 in Amazzonia a Belém, prima ancora che iniziasse.
Innanzitutto, sia la scienza che il buon senso dicono che non possiamo in realtà permetterci nessuna Cop di transizione. In secondo luogo, a Baku si sta decidendo della quantità e della qualità delle promesse di finanza climatica dal Nord Globale al Sud Globale post-2025. Insomma, non proprio un argomento riempitivo.
L’Accordo di Parigi, firmato a Cop 21 nel 2015, rappresenta l’impegno (quasi) globale di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e fare tutto il possibile per limitare l’aumento a 1.5°C.
Prima che il vertice di Baku iniziasse, il neoeletto presidente Donald Trump aveva già annunciato la volontà di ritirare (di nuovo) gli Stati Uniti da questo accordo, diffondendo il timore che il forfait del più grande emettitore storico globale inducesse anche altri stati a fare passi indietro e rendesse di fatto gli sforzi degli firmatari una lotta donchisciottesca.
Molti a Baku, tra cui la Chief Representative per la Cina di Greenpeace Asia, hanno tentato di dissipare queste paure e hanno parlato piuttosto un’opportunità per paesi come la Cina di riempire questo “vuoto di leadership climatica”.
Quel che è certo è che chiunque ci sia alla Casa Bianca la clessidra del carbon budget, ovvero la quantità di carbonio che il mondo può permettersi di emettere in atmosfera mantenendo l’obiettivo di +1.5°C nell’orizzonte del possibile, non si è fermato per commentare. Nel 2024 sono cresciute le emissioni di tutte le fonti fossili, raggiungendo un ennesimo record che porta al 50% la probabilità di archiviare l’obiettivo +1.5° nei prossimi sei anni.
Questi dati, insieme a quelli prodotti dal programma UE di osservazione della Terra Copernicus, hanno portato molti a domandarsi se abbia ancora-operativamente-senso parlare di 1.5°C. La limpida risposta della Segretaria Generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale a un giornalista che le ha posto questo interrogativo è stata “Non abbandoneremo questo obiettivo. Semplicemente non possiamo farlo”.
Almeno sulla carta, non lo hanno fatto Brasile e Regno Unito, che in questi giorni hanno presentato i propri piani d’azione climatici aggiornati (NDCs): un taglio alle emissioni del 67% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2035 per il primo e dell’81% per il secondo.
Così come era successo a Cop 28 con la capitalizzazione del fondo Perdite e Danni, anche a Baku i negoziati si sono aperti con un risultato da prima pagina (forse anche quest’anno la presidenza aveva bisogno di un gioco di fumo per distrarre gli osservatori dalle sue “manchevolezze”).
Il primo giorno di summit, infatti, è stata approvata una prima bozza dell’Articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, da cui nascerà un meccanismo globale supervisionato dall’ONU per lo scambio dei crediti di carbonio, ovvero crediti generati da progetti che riducono o rimuovono le emissioni di CO2 in atmosfera.
Da un lato c’è chi ha accolto con entusiasmo i passi avanti su questo articolo che ha l’obiettivo di salvaguardare la qualità dei crediti e la trasparenza del mercato. Dall’altro c’è chi teme che, pur supervisionato, questo meccanismo legittimi la riproduzione di approcci estrattivi alle risorse naturali dei paesi in via di sviluppo e sia usato come diversivo dai paesi più ricchi per schivare i propri obblighi di finanza climatica.
Ed è proprio di finanza climatica che si sta parlando a Baku perché sono in corso i negoziati attorno alla definizione di nuovo obiettivo globale di finanza climatica per il periodo post-2025, noto come New Collective Quantified Goal (NCQG). L’NCQG deve sostituire il precedente impegno secondo cui i paesi più ricchi avrebbero dovuto versare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 e fino al 2025 per finanziare la transizione ecologica e l’adattamento delle economie meno sviluppate.
I nodi del negoziato riguardano l’ammontare del NCQG (per il quale l’ipotesi più solida al momento sembrerebbe essere 1300 miliardi di dollari all’anno fino al 2030, la base dei contributori (Cina sì o Cina no?), la proporzione tra le fonti di finanziamento pubbliche e private, e la forma dei trasferimenti. Su quest’ultimo punto la volontà dei paesi recipienti è limpida ed inequivocabile: non investimenti né prestiti, ma sovvenzioni.
La chiusura dei negoziati è fissata al 22 novembre, ma è già stata portata avanti di tre ore. Di solito i negoziati negli ultimi giorni si fanno frenetici e continuano fino a ore tarde. Speriamo che la notte porti consiglio.
Annalisa Gozzi
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