La ventottesima Conferenza delle Parti (COP28) è giunta al termine a Dubai la mattina di mercoledì 13 dicembre. Ora che il polverone si è depositato, è un buon momento per fare un’analisi lucida dei risultati portati a casa da Dubai e mettere le dovute sentinelle.
La plenaria conclusiva è iniziata con 24 ore di ritardo rispetto al programma ufficiale. Non c’era tempo da perdere. Due giorni dopo gli spazi di Expo Dubai 2020, devoluti per due settimane al più importante vertice globale sul clima, avrebbero dovuto ospitare i mercatini di Natale.
Al netto dell’ironia, erano passati soli pochi minuti dall’inizio della sessione plenaria quando il martelletto nelle mani del presidente Sultan Ahmed Al Jaber ha segnato l’approvazione del primo e più discusso punto all’ordine del giorno: il testo finale del primo Global Stocktake (GST).
Questa approvazione lampo non ha nemmeno dato il tempo ai delegati dell’Alleanza dei Piccoli Stati Insulari (AOSIS) di arrivare in aula. Il presidente ha portato a casa il risultato indisturbato. Una mossa astuta che ha ricordato la capitalizzazione tempestiva del fondo Loss & Damage avvenuta il primo giorno di negoziati stabilendo un primato assoluto nella storia delle COP.
Questa COP28 ha avuto molto di eccezionale. La COP più partecipata di sempre con quasi 100.000 accrediti. La COP dal presidente protagonista, tra scandali prevedibili e colpi di coda. La COP con la maggiore presenza attestata di rappresentanti del settore oil & gas. Ma anche la COP in cui si è riusciti a nominare l’elefante nella stanza della crisi climatica: i combustibili fossili sono nel testo finale. Al paragrafo 28 per l’esattezza.
Dopo l’acceso dibattito tra phase out e phase down, l’intervento senza precedenti dell’OPEC per sabotare le chance del phase out, una bozza irricevibile, e ore intense di negoziati, il nodo più attenzionato di COP28 si è risolto, infatti, con la creazione di una terza via. Si parla di “transizione fuori dai combustibili fossili […] accelerando l’azione in questo decennio critico”.
Nonostante l’ingombrante celebrazione del risultato raggiunto con il testo finale del GST da parte di Sultan Al Jaber, critiche importanti si sono sollevate già in plenaria.
“È [un testo n.d.r.] incrementale e non trasformativo” ha dichiarato la delegata delle Isole Samoa in qualità di rappresentante del gruppo AOSIS. E ha aggiunto: “Vediamo una litania di scappatoie in questo testo che ci preoccupano molto”. Per quegli stati che avevano agognato un risultato molto più ambizioso è problematico che nell’accordo si dichiari di volersi attenere alle indicazioni della miglior scienza disponibile, ma non si integrino poi queste indicazioni negli impegni adottati dalle Parti.
Nel famoso paragrafo 28 non si stabiliscono obiettivi quantitativi di riduzione delle emissioni, si restringe il campo ai soli “sistemi energetici”, e si apre una corsia preferenziale allo sviluppo di tecnologie carbon capture and storage e all’idrogeno, rischiando in realtà di rallentare la transizione e di lanciare una scialuppa di salvataggio alle industrie fossili particolarmente interessate agli investimenti in queste tecnologie.
Si stabilisce inoltre di eliminare solo i “sussidi fossili inefficienti” e non funzionali alla riduzione delle povertà energetica o a una transizione giusta. Un punto che ha impensierito particolarmente i delegati AOSIS e non solo, per la sua vaghezza e il suo potenziale dannoso.
Insomma, si tratta di “(…) una canoa con uno scafo debole e che perde, pieno di buchi” prendendo a prestito le parole di John Silk, capo della delegazione delle Isole Marshall. Non è l’imbarcazione di cui si avrebbe bisogno, ma è il risultato migliore che si è riusciti a ottenere da questo forum ad oggi e quindi quello con cui dobbiamo navigare.
Numerosi altri punti discussi a Dubai sono stati soggetti all’Articolo 16 che in gergo significa “non è andata, riprova l’anno prossimo”. Tra questi, i negoziati sull’Articolo 6.2 e 6.4 dell’Accordo di Parigi. Altri ancora, come il Global Goal on Adaptation, hanno prodotto risultati deludenti per via della vaghezza e dell’insufficienza degli obiettivi stabiliti.
Ma come ha detto Bill McKibben a Vox: “La buona notizia è che la COP non è il gioco, ma solo il tabellone”. Per giudicare l’esito di una COP, è opportuno rimettere in prospettiva che tipo di risultato è ragionevole aspettarsi da un forum di questo tipo. La cover decision di COP28 deve essere letta come quello che è: il compromesso di un processo multilaterale che tiene insieme le posizioni più disparate del mondo e soprattutto un segnale politico. A questa COP, 198 stati hanno congiuntamente detto a tutti i ministeri, le amministrazioni e i CdA del mondo che il futuro è lontano dai combustibili fossili.
Questo risultato è a, tutti gli effetti, storico, ma come tutte le dichiarazioni fatte nel corso delle due settimana di COP28, esso potrà essere giudicato solo al vaglio della sua trasposizione sul piano della realtà. La fine di COP28 è semplicemente l’inizio di un anno che ci porterà a COP29, a Baku in Azerbaigian. Un anno di elezioni di rilevanza mondiale, uno spazio per concretizzare i claims in policies e poi in riduzioni delle emissioni, infrastrutture di adattamento e finanziamenti.
La storia ne sarà testimone.
Annalisa Gozzi
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