Lo scioglimento dei ghiacci dischiude opportunità economiche che gli Stati artici cercano di territorializzare, tra framework giuridico labile, appetiti delle grandi economie asiatiche e stravolgimento degli ecosistemi ittici.
L’Artide, diversamente dall’Antartide, non è stata oggetto di alcuna disciplina internazionale di tipo pattizio. I contrapposti interessi degli Stati rivieraschi vanno, dunque, contemperati in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), firmata nel 1982 a Montego Bay, che stabilisce un regime globale di legge e ordine negli oceani e nei mari, disciplinandone regole di navigazione e sfruttamento delle risorse.
Questo fortunato e longevo accordo internazionale vide la luce in risposta alle montanti rivendicazioni che nel Secondo Dopoguerra gli Stati avanzavano sui mari e i fondali prospicienti le coste. Ciò era dovuto alle innovazioni tecnologiche nella nautica e nello sfruttamento ittico, minerario e di idrocarburi in mare aperto, che avevano reso non più adatta la dottrina settecentesca della “libertà dei mari”, la quale, a parte una esigua striscia di 3 miglia nautiche costiere, proclamava il resto dei mari libero da tutti e non appartenente a nessuno.
Secondo la Carta, i Paesi litoranei possono rivendicare diritti di sfruttamento delle risorse naturali, biologiche e non, nella colonna d’acqua, nel fondo e nel sottosuolo marino della zona economica esclusiva, d’ora in poi Z.E.E., (art. 56.1.a). E solo nel fondo e nel sottosuolo per quanto concerne la piattaforma continentale (art. 76.1 e 77.4), a condizione che dimostrino che i fondali artici siano il prolungamento della loro piattaforma continentale.
Per la Z.E.E il limite è fissato a 200 miglia marine da quello del mare territoriale (art. 57). Qualora, invece, il bordo esterno del margine continentale (cioè il prolungamento sommerso della massa terrestre dello Stato costiero, art. 76.2) si trovi al di là della linea delle 200 miglia, sono previsti due criteri alternativi per delimitare la piattaforma: uno fa leva sulla linea di settore, l’altro sulla linea mediana (ad ogni modo, non oltre le 350 miglia marine dal mare territoriale o, in alternativa, oltre le 100 miglia dalla linea che collega i punti dove la profondità è pari a 2.500 metri).
Ne consegue che ogni Stato costiero ha facoltà di scegliere il criterio più favorevole e suffragare istanze e misurazioni presso la Commissione sui Limiti della Piattaforma Continentale, la quale ha un mero ruolo di supporto tecnico e raccomandatorio, ma sono poi gli Stati costieri a stabilire definitivamente i limiti (art. 76.8).
Oltre al fatto che i dati idrografici e batimetrici nella regione risultano ancora scarsi o inadeguati per la gran parte delle superficie marina, sussiste il problema dell’incontro tra Stati artici con coste opposte o adiacenti, a cui l’UNCLOS raccomanda accordi transitori in attesa di quello definitivo sulla base del diritto internazionale. A maggior ragione quando la Commissione si trova a valutare richieste di sovranità riguardanti la medesima dorsale oceanica.
Su queste basi Russia, Canada, Danimarca reclamano vaste aree corrispondenti alla più estesa dorsale sottomarina che attraversa l’Artico, la Dorsale di Lomonosov, che dalle Nuove Isole Siberiane raggiunge le Isole Artiche Canadesi. Parafrasando un libro del geografo Edoardo Boria, “Carte come Armi“, anche la cartografia è piegata a logiche di potenza geo-politica e geo-economica degli Stati.
Un esempio su tutti, la cartina con cui il Canada delimita il proprio confine a Nord, avente come vertice il Polo Nord, in piene acque rivendicate anche da Russia e Danimarca. Anche gli Stati Uniti hanno la loro dose di pretese, le maggiori riguardanti proprio il Canada. Infatti, essendo uno dei pochissimi Paesi a non aver ratificato l’UNCLOS, gli Stati Uniti non considerano il tratto che va dal Mare di Beaufort alla Baia di Baffin come acque territoriali canadesi, come asserisce il suo vicino franco-anglofono, bensì acque internazionali, ovvero libere di essere attraversate senza rendere conto ad alcuno.
La contesa per l’attraversamento marittimo del Nunavut canadese è tutt’altro che speciosa. Come evidenziato nel sito, la Rotta a Nord Ovest porterebbe ad un taglio di circa 4.000 miglia nautiche tra i commerci Asia-Europa rispetto al transito via Suez. Stesso discorso per i collegamenti tra la Cina e il ricco Nord-Est atlantico: Shanghai-Montreal (primo porto in grado di servire la regione) via Northwestern Route distano “solo” 7700 miglia nautiche contro le ben 11300 Shanghai-New York (principale approdo della costa est) passando per Suez.
Nel 2008, l’US Geological Survey (USGS) ha completato una valutazione delle risorse di petrolio e gas convenzionali da scoprire in tutte le aree a nord del Circolo Polare Artico (33 province geologiche ritenute potenziali per il petrolio). Utilizzando una metodologia probabilistica dell’analisi geologica e un modello analogico, l’USGS ha stimato che si possono trovare 90 miliardi di barili di petrolio, 1.669 trilioni di piedi cubi di gas naturale e 44 miliardi di barili di liquidi di gas naturale, di cui si prevede che circa l’84% percento sia offshore.
Lo studio presenta un doppio limite metodologico. Uno qualitativo: non è fatto sul campo, mentre le prospezioni geofisiche utilizzate nell’industria petrolifera sono quelle sismiche nella variante a riflessione, in particolare l’air gun per i fondali marini. E l’altro quantitativo: l’importanza geopolitica e industriale della misurazione delle riserve di idrocarburi permette che gli Stati e le grandi compagnie del settore tendano a barare al rialzo sui numeri reali, accertati e stimati, nell’ottica di accrescere l’appeal economico per potenziali investitori.
Inoltre, un’azienda estrattiva non affiderebbe mai a terzi l’attività di prospezione geofisica, nel timore di fuga o rivendita di preziose informazioni alla concorrenza, né baserebbe i propri investimenti sulle opinabili analisi di un ente non specializzato nell’exploiting.
Senza tema, la riduzione della criosfera artica libererà vaste zone di mare pescose, da cui l’interesse di Cina e Giappone, che considerano già l’Artico come il loro frigorifero, affamate come sono di proteine (notoriamente il pescato ha un notevole peso nella dieta nipponica). I Paesi artici, come detto, cercheranno di estendere le proprie Zone Economiche Esclusive per lo sfruttamento della colonna d’acqua e ciò porterà a crescenti dispute territoriali, già in essere.
Non solo. La variazione di temperatura condiziona la fauna ittica, che ri-geolocalizza i propri ecosistemi: «L’aumento della temperatura degli oceani e la diminuzione del pH marino sta spingendo i pesci a “borealizzarsi”, cioè a spostarsi più a nord per ritrovare le condizioni di vita a cui sono abituati – spiega Mario Acquarone, ricercatore dell’università di Tromsø, in Norvegia – e, così, nelle acque islandesi compaiono per la prima volta platessa, rombo giallo, rana pescatrice e, soprattutto, lo sgombro».
La “rivoluzione” dello sgombro sta avvelenando storici rapporti di amicizia nel GIUK Gap, comunità scozzesi e norvegesi, dopo secoli di economia basata sullo sgombro, sono ridotte in miseria, mentre Islanda, Isole Far Øer e Groenlandia riempiono reti e conti in banca. Il 3 Marzo 2018, alfine, i cinque Paesi Artici più Cina, Corea del Sud, Giappone, Islanda e UE (dunque anche Groenlandia e Fær Øer, rappresentate dalla Danimarca) hanno firmato un accordo di regolamentazione della pesca d’altura nell’Artico centrale nel quadro di una strategia a lungo termine per tutelare la salute degli ecosistemi marini e garantire la conservazione e lo sfruttamento sostenibile degli stock ittici.
A queste latitudini il pesce sta diventando un animale “politico”: il 60% di quello consumato negli USA proviene dal Mare di Bering, stessa percentuale per quello europeo dal Mare di Barents, gamberi e capelin, classici delle nasse islandesi, stanno traslocando al largo della Groenlandia, così le aragoste del New England risalgono verso Canada e Labrador, arrivano nuovi predatori e batteri fantasma risvegliati dallo scongelamento del permafrost.
Pare che i Paesi artici, nello spirito di Ilulissat, si siano mossi o si stiano muovendo tramite mutui accordi per addivenire a soluzioni concordate. Russia e Norvegia, per esempio, nel Settembre 2010, dopo una disputa di 40 anni, hanno firmato un trattato di delimitazione dei confini artici. Molte i piani di collaborazione e non solo tra Paesi Artici, come lo sviluppo di programmi di ricerca alle isole Svalbard, l’elaborazione di una Carta Batimetrica Internazionale dell’Oceano Artico (IBCAO), il progetto (già approfondito in un recente articolo di Osservatorio Artico) di sorveglianza e sicurezza marittima civile ARCSAR, finanziato dall’Unione Europea. Tutte iniziative a cui partecipa anche l’Italia.
Va dà se che la liberazione di superficie terrestre e marina dal ghiaccio fornirà indubbiamente inedite possibilità di prospezione per risorse energetiche e minerarie, a cui contribuirà la riduzione del permafrost.
Al ché, però, occorre evidenziare che si stima che il 90% delle risorse del sottosuolo siano all’interno delle 200 miglia nautiche di piattaforma (ovvero di fondali già di giurisdizione degli Stati). Sicché le criticità più prevedibili deriveranno dalla mancata ratifica statunitense dell’UNCLOS, fonte di preoccupazione per Canada e Russia, e dallo status autonomo della Groenlandia, cosa che permette una penetrazione cinese, per ora solo mineraria, osteggiata da Washington, vero dominus dell’Artide occidentale, il quale preferirebbe che tutto rimanesse congelato il più possibile nel quadrante meno protetto del continente americano.
Marco Leone
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