I cinesi salpano per l’Artico. Il 15 luglio una missione scientifica della Repubblica Popolare ha lasciato il porto di Shanghai, dove tornerà a fine settembre dopo aver navigato 12 mila miglia nautiche attraverso il Mare dei Čukči, il bacino canadese e il centro del Mar Glaciale Artico.
È l’undicesima volta che accade, ma è come se fosse la prima. Perché è al debutto la Xue Long 2, la seconda rompighiaccio della Cina, che quest’anno ha già completato un viaggio nell’Antartico e ora si dirige verso il tetto del mondo.
Benché puramente scientifica, la spedizione attira inevitabilmente considerazioni strategiche. Da sempre le esplorazioni costituiscono un modo per corroborare le rivendicazioni degli Stati nelle regioni meno accessibili del pianeta. E la ricerca serve a dotarsi di informazioni sensibili che i tuoi rivali non hanno o che non vogliono che tu abbia.
Il 2020 ha fornito in tal senso un esempio lampante: le autorità russe hanno accusato di tradimento il presidente dell’Accademia delle scienze sociali dell’Artico di San Pietroburgo, il 78enne Valerij Mitko, che avrebbe venduto a Pechino segreti militari relativi all’individuazione dei sottomarini. Da anni i cinesi cercano di migliorare le loro conoscenze sugli oceani e su come operare i sommergibili nell’Artico.
Benché la missione della Xue Long 2 attraversi acque russe, a Mosca sono rimasti in silenzio. Come pure nessuno dei due Paesi ha commentato la vicenda di Mitko, peraltro emersa in pubblico solo dopo diversi mesi. Il motivo è che i due governi hanno stretto una quasi-alleanza contro gli Stati Uniti o, meglio, costretti dagli Stati Uniti: la fortissima pressione di Washington sia contro la Russia (dopo i fatti ucraini e della Crimea) sia contro la Cina (assedio a tutto campo per spezzarne la crescita) ha spinto queste due potenze assieme.
Fino a un certo punto, però: Mosca sa che nel lungo periodo finirebbe per fare da paggio a Pechino e quindi cerca ogni occasione per mandare segnali distensivi agli americani, i quali rispondono sempre picche perché ancora convinti (non si sa ancora per quanto) di non aver bisogno dei russi per stroncare i cinesi.
Per esempio, il Cremlino ha appoggiato la proposta americana di un’inchiesta sulle origini del coronavirus (anatema per i cinesi). Oppure si mantiene neutrale nello scontro al confine sino-indiano, uno dei fatti più rilevanti del 2020, anzi Delhi si è subito rivolta a Mosca per comprare nuovi armamenti con cui difendersi dal rivale di frontiera.
Pechino non ha affatto gradito, a dimostrazione dei limiti della cooperazione sino-russa. In ogni caso, i due regimi non lavano i panni in pubblico, non si puntano il dito a vicenda. Stare assieme, anche senza vera passione e se i litigi fioccano, è ancora infinitamente preferibile a separarsi.
È dunque assai sbagliato parlare, come spesso si fa, di un’alleanza tra Cina e Russia nell’Artico. Anzi l’Artico è un teatro in cui gli interessi strategici delle due potenze sono apertamente in contrasto. Il caso Mitko dimostra la preoccupazione dei russi a che la Repubblica Popolare guadagni conoscenze decisive – dunque aumenti la sua presenza – tra i ghiacci.
I soldi dei cinesi sono necessari a sviluppare l’Artico, ma i russi non li prendono a tutti i costi. Provano a diversificare le fonti di investimento nel potenziamento della rotta marittima settentrionale. Nelle ultime settimane hanno condotto colloqui con investitori francesi. Hanno coinvolto l’emiratina Dp World che è fra i leader della portualità mondiale nel progetto per i nuovi terminal di Murmansk.
Hanno rifiutato i capitali cinesi, mettendoceli loro in prima persona, per un nuovo porto sul Mar Bianco facendosi promettere dai giapponesi di ricevere parte del traffico da lì generato. Non proprio segni di una genuflessione russa nei confronti di Pechino.
Mosca non vuole concedere ai cinesi avamposti nell’Artico. In questo ha un interesse in comune con i paesi nordici (i tre scandinavi, Finlandia e Islanda), i quali di recente hanno pubblicato un rapporto ufficiale congiunto nel quale si descrive esplicitamente la Repubblica Popolare al Polo Nord come una preoccupazione comune che richiederà operazioni di deterrenza.
Impossibile assistere a un’esplicita convergenza tra questi Stati e la Russia perché la forza militare di quest’ultima li intimorisce altrettanto se non di più. Però il clima attorno alle incursioni cinesi nell’Artico si sta chiaramente irrigidendo.
È inevitabile che accada: il tetto del mondo è sempre meno isolato da ciò che succede altrove e le scariche dello scontro a tutto campo tra Usa e Cina arrivano sin quassù. Esattamente come Washington sta ottenendo da Regno Unito e Italia per esempio un indurimento su Huawei e sul 5G, ai finlandesi sta chiedendo di ridurre i legami tra le loro università e quelle cinesi e ai danesi di interrompere rapporti nella ricerca.
Difficilmente la Cina vedrà chiudersi le porte dello Stretto di Bering. Vedrà però complicarsi i piani di usare l’Artico per rivendicare un ruolo di grande potenza mondiale, per accumulare indisturbata conoscenze utili alla sua ascesa anche militare e per costruirsi rapporti da spendersi altrove in chiave diplomatica.
Non assisteremo comunque nel medio periodo a un congelamento dei rapporti con la Russia. L’Artico non è così fondamentale nella strategia di entrambe da far naufragare la cooperazione generale tra le due potenze.
Federico Petroni
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