In Canada il fil rouge dell’inquinamento atmosferico e dei rischi che questo comporta per la salute umana unisce due temi apparentemente sconnessi: la stagione degli incendi boschivi e le sabbie bituminose. Nel complesso, non tira una buona aria.
Le immagini dal gusto quasi fantascientifico di New York soffocata e tinta d’arancione dello scorso giugno sono rimaste impresse nella memoria di molti. Un monito su quanto lontano può viaggiare l’impatto di un disastro ambientale relativamente “locale”.
Le coltri di fumo generate dagli incendi in Canada hanno “gravemente influenzato la qualità dell’aria non solo a livello locale, ma anche per gran parte del Nord America e oltre”, arrivando ad attraversare l’Oceano Atlantico. Monossido di carbonio e particolati fini (PM 2.5) non conoscono confini né dogane.
Secondo il report annuale del Canadian Interagency Forest Fire Centre (CIFFC), la lunga stagione degli incendi del 2023 – iniziata “eccezionalmente presto” a fine aprile e conclusa ad ottobre – è stata la più devastante registrata nel Paese: 17,203,625 milioni di ettari bruciati.
La prima richiesta di intervento era arrivata il 30 aprile dall’Alberta, regione che una settimana più tardi aveva annunciato lo stato di emergenza. Le fiamme sono divampate poi in numerose aree del Canada, lasciando pressoché nessun porto franco sulla mappa.
A partire da luglio, anche le aree nei Territori del Nord-Ovest interne al circolo polare artico – dove le temperature di superficie aumentano a un ritmo accelerato – sono state interessante da molteplici incendi. I terribili ricordi – e i danni – del 2023 sono ancora vividi mentre ci si prepara per la stagione 2024.
Natural Resource Canada ha iniziato a elaborare predizioni geolocalizzate del rischio e il Canadian Interagency Fire Center and Natural Resources teme che le prolungate condizioni siccitose causino un’attività “più intesa del normale” ad Aprile. Laddove la siccità dovesse estendersi durante la primavera, esiste il rischio che gli “incendi zombie” nati dalle braci del 2023 si risveglino in forza.
Il fenomeno di queste fiamme assopite sotto lenzuola di neve – ma mai estinte – è cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. Solo a gennaio sono stati registrati 106 casi.
Il nesso tra cambiamento climatico e incendi è una storia di cause – o meglio fattori determinanti – e conseguenze. Partiamo dalle cause.
L’alterazione climatica dovuta all’accumulo di emissioni di gas a effetto serra in atmosfera è direttamente correlata all’aumento delle temperature di superficie e alla diffusione di un clima sempre più arido in diverse regioni del mondo. Ciò favorisce lo scoppio degli incendi e ne aggrava le conseguenze, rendendoli più difficili da domare.
Nel biennio 2023-2024 queste dinamiche fanno i conti con un’aggravante. Il fenomeno meteorologico El Niño. A dispetto del nome apparentemente innocuo, questa oscillazione, che si verifica a intervalli di due-sette anni, incide sulla circolazione atmosferica esacerbando l’aumento delle temperature globali.
Le foreste sono dei pozzi naturali di carbonio. Immagazzinano grandi volumi di emissioni clima-alteranti, riducendone gli effetti dannosi sul clima. Quando le foreste bruciano questo stock viene rigurgitato in atmosfera. Mediamente gli incendi boschivi generano di 2100 mega tonnellate di carbonio ogni anno. Il Canada ne ha prodotto quasi 480 mega tonnellate nel 2023, cinque volte la media degli ultimi 20 anni.
Una postilla non irrisoria riguarda le conseguenze “indirette”.
Queste sono dovute agli aerosol organici contenuti nel fumo degli incendi che hanno un effetto misto sul clima. Se raggiungono elevate altitudini possono produrre un temporaneo raffreddamento locale. Se rimangono al livello della superficie terrestre o viaggiano fino a depositarsi su superfici altamente riflettenti – come il ghiaccio e la neve dell’Artico – invece aumentano l’assorbimento delle radiazioni solari causando incrementi di temperatura.
Cosa c’entrano le sabbie bituminose con gli incendi? Domanda legittima.
Entrambi contribuiscono – con gli stessi mezzi – a degradare la qualità dell’aria. Le abbondanti distese di bitume del Nord dell’Alberta sono tra le riserve di petrolio greggio più abbondanti del mondo. Il processo di estrazione dell’olio nero da queste dense sabbie appiccicose è estremamente energivoro e inquinante.
Un recente studio pubblicato sulla rivista Science ha rivelato che la quantità di inquinamento atmosferico prodotto da queste operazioni è largamente superiore a quanto stimato fino ad oggi. Tra le 20 e le 64 volte maggiore di quanto dichiarato dalle imprese estrattive e quindi immensamente più grave per la salute di chi respira quell’aria.
I danni sulla salute delle comunità limitrofe sono evidenti, ma non sono gli unici da considerare. Gli studiosi hanno rilevato quantità maggiori del previsto di composti organici più pesanti. Questi tendono a reagire con altre sostanze, formando il famoso particolato fine (PM 2.5) che permane a lungo in atmosfera e può viaggiare per centinaia o perfino migliaia di kilometri.
Si tratta dello stesso tipo di inquinanti sprigionati dagli incendi scoppiati in Canada l’anno scorso. Quelli che hanno ammantato New York e danneggiato la salute di centinaia di migliaia di persone.
Annalisa Gozzi
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