Il Mare di Beaufort è da sempre oggetto di una contesa sui confini marittimi fra Canada e Stati Uniti, che vogliono assicurarsi le sue preziose risorse.
Beaufort, l’eterna disputa
Si riapre, in modo pacifico, una disputa che affonda le radici nel passato remoto, per i confini di uno dei mari più contestati dell’Artico: Canada e Stati Uniti hanno annunciato la formazione di una task force congiunta per discutere la delimitazione del Mare di Beaufort.
Il confine marittimo tra Alaska e i Territori del Nord-Ovest canadesi, teatro di un braccio di ferro diplomatico che va avanti da decenni, è al centro delle nuove negoziazioni che puntano a portare chiarezza in un’area cruciale per le risorse energetiche.
In gioco infatti non c’è soltanto un dilemma per cartografi, ma il controllo di ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale, risorse che potrebbero rivelarsi decisive per il futuro approvvigionamento energetico di entrambe le nazioni. Tanto più ora che il ritirarsi dei ghiacci apre a un maggiore sfruttamento dell’Artico e delle sue risorse, nonché delle nuove rotte marittime.
Alle origini di un mare conteso
La disputa sul Mare di Beaufort affonda le radici nel trattato di San Pietroburgo del 1825, quando Gran Bretagna e Russia definirono la linea di confine terrestre tra i loro rispettivi possedimenti nordamericani. La convenzione del 1825 non faceva esplicito riferimento al confine marittimo, lasciando aperta una questione destinata a complicarsi nei decenni a venire.
Con l’acquisto dell’Alaska nel 1867 gli Stati Uniti ereditarono i diritti acquisiti dal trattato, così come il Canada li ereditò dal Regno Unito nel 1880. Da quel momento emersero le due differenti visioni sulla delimitazione dei confini.
Il Canada sostiene che il trattato delinea il confine sulla linea meridiana del 141° grado sia sulla terraferma che sul mare. Gli Stati Uniti invece sostengono che si tratta semplicemente di un confine terrestre e che si applica la normale delimitazione del confine marittimo, seguendo un angolo di novanta gradi dalla costa.
La questione non è mai stata formalmente risolta, seppure i vari tentativi di negoziato furono sostituiti da un tacito accordo: evitare di prendere decisioni o iniziative unilaterali nell’area contestata.
La piattaforma continentale estesa
La creazione di questa task force, tuttavia, è il culmine di una recente ripresa delle discussioni. Lo scorso dicembre, gli Stati Uniti hanno rilasciato i limiti di quella che considerano la propria “extended continental shelf” (ECS), o piattaforma continentale estesa alla competente agenzia delle Nazioni Unite. Determinare i limiti dell’ECS è diverso dal determinare l’estensione di altre zone marittime, come la zona economica esclusiva (ZEE). Questi limiti sono determinati in base a una distanza specifica dalla costa.
I limiti dell’ECS, invece, dipendono dalle caratteristiche geofisiche del fondale marino e del sottosuolo, e sono determinati utilizzando disposizioni complesse stabilite dall’articolo 76 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. In pratica, si reclama la proprietà del fondale marino, oltre i limiti delle acque territoriali, sulla base di considerazioni geologiche. I diritti a una piattaforma continentale estesa infatti non includono il controllo su questioni come la pesca o la navigazione, ma riguardano solo il fondale e il suo sottosuolo.
Si direbbe una procedura di applicazione di noiose e complicate leggi internazionali, ma vale la pena notare che gli stessi Stati Uniti questa convenzione non l’hanno mai ratificata. E che il Canada aveva già presentato la sua rivendicazione della piattaforma continentale nel 2019, che collimava già con quelle di Russia e Danimarca. C’è dunque da fare gli auguri ai funzionari ONU che dovranno valutare le rivendicazioni scientifiche di ciascuno stato.
Insomma, la questione rivendicazioni territoriali nell’artico è tutt’altro che semplice, ma più che la giurisprudenza riguarda la corsa alle risorse dei fondali artici e alle future – e presenti – rotte marittime che si apriranno con lo scioglimento dei ghiacci.
Un mare di risorse
Lo sviluppo di petrolio e gas nell’Artico canadese iniziò con la scoperta del giacimento petrolifero di Norman Wells nel 1920, ma l’attività sulla terraferma nella regione non si intensificò fino a quando non fu trovato petrolio nel 1968 a Prudhoe Bay in Alaska. In questo periodo si intensificò anche l’esplorazione offshore nel Mare di Beaufort.
Furono perforati in totale 86 pozzi dal 1972 al 1989, un numero impressionante date le dure condizioni e le incerte prospettive commerciali della zona. Tuttavia, sebbene diverse aziende canadesi fossero state attive nella promozione del potenziale petrolifero del Mare di Beaufort, l’Artico fu per lo più abbandonato dalla metà degli anni ’80 quando i prezzi del petrolio crollarono.
Le attività ripresero a cavallo del millennio, con nuove perforazioni e la creazione della Northstar Island, un’isola artificiale di circa 2 ettari situata a circa 19 km a nord-ovest di Prudhoe Bay, Alaska. Costruita tra il 1999 e il 2001, l’isola è stata creata per sviluppare il Northstar Oil Pool, scoperto da Royal Dutch Shell nel 1984 a circa 3.800 metri sotto il fondale marino.
Oggi, con la ritirata della banchisa artica e il conseguente accesso a nuove rotte marittime e siti di estrazione, l’importanza strategica del Mare di Beaufort è cresciuta notevolmente. Secondo stime recenti, nel Mare di Beaufort si stima la presenza di circa 178 miliardi di m³ di gas naturale e 667 milioni di barili di petrolio greggio.
Tuttavia, le politiche di difesa ambientale hanno prevenuto la corsa forsennata agli idrocarburi artici, ma questa è solo una questione politica che, come tale, può mutare come le stagioni. Un esempio lo fornisce il Progetto Willow, che avrebbe previsto un imponente piano di perforazione in Alaska, prima avallato da Trump e in seguito sconfessato da Biden.
Enrico Peschiera