© Arseniy Kotov
L’Artico russo affronta un esodo giovanile legato a disoccupazione e scarse prospettive educative, amplificati dalla crisi delle monocittà post-sovietiche. La privatizzazione ha innescato una spirale di disagi sociali, tra mortalità elevata, alcolismo e violenza.
I territori artici russi, come quelli di altri Stati polari, sono contraddistinti da un fortissimo tasso di emigrazione. I giovani, infatti, non appena finita la scuola, spesso abbandonano le città nelle quali sono nati e cresciuti per non tornarvi mai più. Le cause di tale fenomeno sono sostanzialmente due: la mancanza di opportunità di lavoro e la scarsa offerta di un’istruzione universitaria di qualità. È interessante notare come questi fattori siano riscontrabili anche nei casi delle monocittà sparse nell’intero territorio russo.
Le monocittà (monogoroda in russo) sono centri abitati fondati nel cuore della Siberia, nell’Estremo Oriente o nell’Artico durante l’industrializzazione degli anni Trenta in luoghi spesso inospitali ma ricchissimi di risorse naturali. L’intera vita delle monocittà ruota intorno a una sola industria, sorta a seguito della pianificazione economica messa in campo dal governo sovietico: negli impianti della produzione automobilistica, nelle miniere di diamanti a cielo aperto o nelle acciaierie e fonderie che costituiscono il cuore di così tante di queste città non è tanto il lavoro a mancare, quanto la varietà occupazionale, fatto che certo non invoglia i giovani a restare.
La fine dell’Unione Sovietica, tuttavia, ha causato drastici cambiamenti nelle città del Nord: la rapida privatizzazione dei primi anni Novanta ha portato, da una situazione di occupazione totale e forti aiuti statali, all’incertezza del periodo successivo, che vide le imprese private subentrare allo Stato nel controllo degli impianti minerari e industriali. In un Paese socialista quale era l’Unione Sovietica, le condizioni economiche dell’Artico erano infatti rese vivibili dalla calmierazione dei prezzi, soprattutto dell’energia e dei carburanti, pianificata a livello centrale.
La cosiddetta privatizzazione di massa sarebbe verosimilmente collegata a un picco di mortalità della popolazione russa in età da lavoro, soprattutto maschile, registrato tra il 1992 e il 2006, che andò ad accentuare una già grave situazione demografica provocata dalla crisi migratoria: la disoccupazione causata dalla privatizzazione, possibilità che nella nuova Russia capitalista, trasformatasi in un’economia di mercato, diventava concreta, contribuì a procurare un forte stress nella popolazione.
Questo parrebbe correlato all’aumento di malattie cardiovascolari e, di conseguenza, a un maggiore tasso di mortalità. Durante il periodo sovietico, soprattutto nelle monocittà, erano infatti le imprese statali a occuparsi del benessere dei lavoratori e delle loro famiglie: una vasta gamma di benefici sociali quali alloggi, sanità gratuita o semplicemente organizzazione del tempo libero contribuivano a minimizzare le preoccupazioni del lavoratore, permettendone la serenità.
La venuta meno della sicurezza degli aiuti e dei benefici dello Stato gettò larghe porzioni di lavoratori e di disoccupati nell’alcolismo e nella depressione, portando all’aumento sia dei suicidi sia degli omicidi.
Tommaso Bontempi
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Ringraziamo il fotografo Arseniy Kotov per la gentile concessione delle immagini.
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