Prospettive e limiti di un corridoio economico sulle acque polari per l’Artico russo, che tramuta se stesso guardando al futuro.
Per secoli, il mondo ha considerato l’Artico come un gigantesco e improduttivo deserto ghiacciato. Disinteressato nonostante la prossimità geografica, lo stesso Vecchio Continente si è limitato a immaginare il Grande Nord, e invece che studiarlo ha preferito dipingerlo sulla base di fonti letterarie medievali come la “Inventio Fortunata” o fantasiosi racconti di antichi viaggiatori.
Con lo scorrere degli anni questa patina di pregiudizi si è pian piano erosa grazie alla ricerca scientifica e sul cambiamento climatico, finché il velo di Maya non è caduto con la pubblicazione dello U.S. Geological Survey, secondo le cui stime circa il 30% del gas naturale e il 18% del petrolio del pianeta giacerebbero oltre il 66° Parallelo Nord.
D’un tratto, quella che agli occhi dell’umanità fu per secoli una immutabile landa di ghiaccio, è divenuta un nuovo El Dorado per investitori e policy-maker, una dinamica miniera d’oro pronta ad aprirsi o dischiudersi a seconda della virulenza e dell’impatto variabile del riscaldamento globale sui ghiacci polari. E così, sulla scia dell’entusiasmo, l’Artico è repentinamente irrotto nelle agende politiche delle grandi potenze globali, interessate ad accaparrarsi diritti e usufrutto di risorse energetiche, terre rare e nuove rotte commerciali marittime nel nuovo Oceano Artico.
Contrariamente al senso comune, questa convergenza di interessi non riguarda solamente gli stati costieri propriamente artici (A5: Canada, Danimarca, Norvegia, Russia, Stati Uniti), ma anche attori extra-regionali come la Cina, auto-proclamatasi “stato quasi-artico” (“Jin Beiji Guojia”) in virtù di considerazioni legate all’interdipendenza tra la propria sicurezza nazionale e l’atavica dipendenza cinese dal trasporto marittimo.
All’indomani di sette anni di sanzioni euro-atlantiche contro il Cremlino, il ‘matrimonio di convenienza’ celebratosi sull’asse Mosca-Pechino e l’inasprimento della politica estera russa hanno fornito alle analisi più allarmiste l’accattivante tesi secondo cui saremmo di fronte a una “nuova Guerra Fredda”, di cui la “corsa per l’Artico” rappresenterebbe uno dei teatri principali. In questa narrazione parziale, la Russia ha il phisique du role ideale per interpretare la parte dell’antagonista.
Dopo aver piantato la propria bandiera sui fondali polari nel 2007, il Paese ha proceduto alla modernizzazione della Flotta del Nord e delle vecchie basi sovietiche nell’Artico, e non perde contestualmente occasione di organizzare esercitazioni militari per offrire “prove di forza” ai vicini e ribadire che “qui comandiamo noi”.
Da un lato, è innegabile che tali narrazioni incriminanti non rappresentino altro che il contraltare dell’inasprimento del discorso politico del Cremlino, che è degradato in poco meno di vent’anni da un liberalismo di facciata a un esacerbato nazional-conservatorismo. Ciononostante, l’esasperazione di certe letture iperrealiste si dimostra spesso fuorviante, rasentando talvolta il grottesco e sottacendo le reali dinamiche che caratterizzano dagli anni ’90 il funzionamento degli affari artici.
Difatti, per quanto evidenti e marcate nella strategia russa per l’Artico, le dinamiche di modernizzazione ed esercitazione militare non sono una prerogativa esclusiva di Mosca, e sono anzi condivise in forme e proporzioni simili dagli altri Stati costieri artici.
Gli Stati Uniti, in particolare, sono fautori di una contestazione sistematica alle fondamenta normative della governance regionale, non riconoscendo valida alcuna sovranità nazionale sugli stretti oceanici e rifiutandosi di ratificare definitivamente la Convenzione delle Nazioni sul Diritto del Mare (UNCLOS), posto invece alla base della cooperazione artica dalle principali istituzioni regionali come il Consiglio Artico.
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Guglielmo Migliori
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