Artide, Antartide e non solo. Perché anche l’Himalaya è considerata un Polo a sé. L’intervista a Gianluca Frinchillucci e Federico Prizzi.
Lo scorso Settembre l’Arctic Centre della University of Lapland – in collaborazione con l’International Centre for Intergrated Mountain Development – ICIMOD – ha organizzato la prima Inter-Polar Conference: Connecting the Arctic with the Third Pole – Hindu Kush Himalaya.
Come membro del comitato organizzatore, è stata un’esperienza entusiasmante. Tutto è partito da una discussione con dei colleghi all’Arctic Centre. La prontezza e la forte necessità di avviare un dialogo accademico tra esperti provenienti da entrambe le regioni hanno permesso di presentare l’idea all’Arctic Forum lo scorso Marzo a Tokyo, dal quale è nata una grande sinergia con l’ICIMOD di Kathmandu che si è offerto di collaborare all’organizzazione dell’evento.
Ma facciamo un passo indietro. Perchè questa conferenza? E cos’è il Terzo Polo?
L’Artico si scalda almeno tre volte più velocemente della media globale, e soffre enormemente degli effetti del cambiamento climatico. Non solo l’innalzamento dei livelli del mare, erosione del suolo, acidificazione degli oceani, scioglimento del permafrost. Ma anche impatti negativi sull’approvvigionamento di cibo, risorse e acqua, e anche un impatto psicologico che incide su ansia e depressione.
Il Terzo Polo rappresenta quella regione del globo che presenta caratteristiche ambientali e sociocuturali non troppo dissimili. Rapido scioglimento dei ghiacciai, alterazione della biosfera, rischi legati all’approvvigionamento di acqua e cibo e una forte presenza di popolazioni indigene sono tutti tratti condivisi con la regione artica. La regione del Terzo Polo conta quasi due miliardi di persone che vivono in otto diversi Paesi – India, Cina, Pakistan, Bhutan, Nepal, Afghanistan, Bangladesh, Myanmar e Tajikistan e il cui stile di vita è profondamente influenzato dal massiccio himalayano.
L’obiettivo della conferenza è stato quello di esplorare metodi e oggetti di ricerca comuni alle due regioni e offrire dei modelli che siano replicabili nell’una e nell’altra regione, a prescindere dalle difficoltà legate alla situazione geopolitica regionale.
Qui ho deciso di riportare l’esperienza che Gianluca Frinchillucci, Direttore del Museo Polare di Fermo Silvio Zavatti, e l’antropologo Federico Prizzi hanno vissuto alla conferenza e più in generale nel periodo che hanno trascorso in Nepal.
La Conferenza di Kathmandu è stata la prima occasione per ricercatori e accademici provenienti dall’Artico di confrontarsi con i colleghi della regione del Terzo Polo. Come reputate possa avvenire questo scambio di idee? Quale è stata la vostra esperienza nell’ambito della conferenza? Quale area di ricerca credete possa beneficiarne maggiormente da questo scambio?
“Dal nostro punto di vista la Conferenza di Kathmandu è stata un’esperienza estremamente costruttiva. Si è trattato di un’occasione di confronto tra validissimi studiosi di Artico e Himalaya, tematiche su cui noi lavoriamo ormai da anni, e un’ottima opportunità per l’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” di divenire un centro di scambi e di promozione di ricerche sul Terzo Polo.
Lo scambio di idee tra ricercatori e studiosi avviene tramite lo strumento principe della diplomazia culturale e tramite ricerche sul campo condotte con una metodologia di lavoro condivisa. Crediamo siano molte le aree di ricerca che possono beneficiare di questo scambio, a livello sia scientifico sia antropologico, ponendo in un positivo dialogo scienze naturali e scienze umane”.
In Conferenza avete presentato il Museo Polare Silvio Zavatti di Fermo. Quale credete sia la conoscenza della presenza Italiana in artico e delle attività di ricerca condotte? Come può la vostra struttura aiutare da questa prospettiva?
“Crediamo che la presenza italiana in Artico, e la conoscenza stessa dell’importanza dell’Artico a livello strategico, nel nostro Paese sia sottovalutata. Per rispondere in maniera esaustiva alla domanda, dobbiamo fare un passo indietro.
Il nostro istituto ha una storia importante: il suo fondatore, Silvio Zavatti, già nel 1944 ha svolto un’attività pionieristica, applicando la metodologia della ricerca storica e della ricerca sul campo, intuendo la grande importanza strategica dell’Artico a livello globale. La nostra struttura rappresenta perciò la memoria storica delle esplorazioni polari italiane, conservando reperti del Duca degli Abruzzi, di Umberto Nobile e di Silvio Zavatti, ma anche di spedizioni polari più recenti, includendo anche il progetto “Carta dei popoli artici”, che ha operato in Artico dal 2001 fino alla presentazione dei lavori all’Anno Polare Internazionale (IPY) nel 2007/2008.
Il Museo ha lo scopo di far conoscere l’Artico in Italia con vari progetti, tra cui la nostra rivista “Il Polo”, ponendo l’accento sulla geopolitica e sulla sicurezza, oltre che sulla memoria storica e l’esplorazione. Un altro obiettivo è quello di porsi come centro educativo per i ragazzi: in altre parole, avvicinare i giovani, con il giusto connubio di storia, attualità e sogni, sensibilizzandoli nei confronti di tematiche attuali e nei confronti della natura, aiutandoli a capire l’importanza della sua difesa”.
Nella presentazione avete anche introdotto il concetto di cultural diplomacy fondamentale per gli Stati non artici per incrementare l’influenza nella governance artica. Potete dirci di più a riguardo? Quanto ha influito questo approccio nell’ottenimento dello status di stato osservatore da parte dell’Italia nel 2013?
“La cultural diplomacy gioca un ruolo fondamentale nella politica estera dei Paesi ed è la via di comunicazione fondamentale per mantenere e accrescere i rapporti tra le varie Nazioni e le istituzioni. L’Italia, in particolare, ha da sempre voluto affermarsi come player nella regione artica, come dimostrato dalle numerose esplorazioni e ricerche già citate, al di là di qualsiasi mera dimostrazione di soft power.
Il personaggio che ha spianato questo lavoro è il Duca degli Abruzzi, che ha effettuato spedizioni in Artico, Hindu Kush e Corno d’Africa, grande ambasciatore di pace e ponte tra Italia e mondo. In Italia, anzi, nelle Marche, abbiamo avuto anche Giuseppe Tucci, altro punto fondamentale di legame con l’Oriente. Pertanto, l’ottenimento dello status di stato osservatore da parte dell’Italia nel 2013 deve essere considerato come il conseguente effetto di un’efficace cultural diplomacy”.
I vostri studi si focalizzano più sul lato antropologico. Dalla conferenza, credete ci siano delle differenze nell’approccio agli studi delle popolazioni indigene in Artico e nella regione del Terzo Polo?
“Essendo i campi di studio differenti, è inevitabile che vi siano differenze nell’approccio e nella metodologia di ricerca tra popolazioni indigene provenienti da luoghi lontani tra loro. Nel nostro caso, però, c’è stato un denominatore comune che le ha unite, cioè lo sciamanesimo.
La ricerca comparata e sul campo è fondamentale per allargare gli orizzonti dei ricercatori e approcciare la materia da punti di vista diversi. In particolar modo in Himalaya, l’approccio all’antropologia visuale è prezioso perché rappresenta un modo di raccogliere documentazione per testimoniare un mondo che, presto o tardi, cesserà di esistere, o comunque andrà incontro a cambiamenti radicali. In concreto, nel nostro ultimo viaggio himalayano, abbiamo documentato rituali sciamanici Tamang e condotto interviste.
In Artico, invece, in special modo in Groenlandia Orientale e in Siberia, negli anni passati abbiamo raccolto più che altro tracce di sciamanesimo. Ecco la differenza, che si ripercuote inevitabilmente nei criteri metodologici: in Nepal lo sciamanesimo ancora esiste, la popolazione partecipa ai riti e lo sciamano è parte attiva della società e del concetto di salute. In Artico si parla più di tracce, tramandate dall’arte a soggetto sciamanico”.
Può secondo voi la vasta conoscenza e attenzione posta sulle popolazioni indigene artiche aiutare e stimolare il dibattito anche per le popolazioni locali nell’Hindu Kush Himalayano? Quali differenze sussistono? Quali sono le sfide?
“Sicuramente sì, le popolazioni indigene artiche hanno avuto il giusto riconoscimento del loro contesto sociale e culturale che può essere un modello a cui ispirarsi, anche se in Himalaya c’è un’elevata concentrazione di gruppi etnici diversi e una densità di popolazione tale che rende estremamente complicata una ricerca sul campo completa e uniforme.
Riteniamo, tuttavia, che i popoli indigeni di tutto il pianeta condividano la stessa sfida, che consiste nel capire come vivere la tradizione in un mondo sempre più complesso ed interconnesso.
Uno degli obiettivi della conferenza è instaurare un network di esperti e practitioners duraturo che guardi allo stato critico della criosfera non solo da un punto di vista delle scienze naturali, ma anche da un punto di vista delle scienze sociali, ponendo quindi l’attenzione sugli effetti in termini di scarsità di acqua, di accesso alle risorse fondamentali, di migrazione e di relazioni tra stakeholders regionali. Come credete possa evolvere nei prossimi anni questo primo incontro? Valutate i risultati ottenuti e gli argomenti discussi nella conferenza ben orientati?
“Questo convegno è stato storico, ha gettato le basi e sarà senza dubbio l’inizio di una lunga e duratura collaborazione tra studiosi artici e himalayani. Sicuramente, il tema affrontato è forte e delicato: non è facile prevedere con precisione quali saranno le sfide future, ma possiamo dire che i cambiamenti climatici sono legati al tema della sicurezza, della scarsità dell’acqua e all’insorgere di nuovi possibili conflitti e migrazioni, oltre che collegati all’aspetto militare e commerciale.
Come ricercatori il nostro compito è contribuire ad arricchire la conoscenza di chi detiene il potere decisionale, anche perché questi cambiamenti non si ripercuoteranno soltanto sulle popolazioni artiche ed himalayane, ma sulla nostra stessa vita.
Tutte queste tematiche sono state affrontate nel convegno, che ci ha aperto a tanta speranza, confermando che ricercatori, istituti e popoli nativi lavorano nella stessa direzione. Speriamo che anche il nostro Paese sia sempre di più influenzato da questa tendenza.
Tirando le somme, il convegno interpolare ha gettato solide basi di cui si vedono già i frutti: operativamente, stiamo scambiando dati con altri ricercatori per preparare nuovi ambiti di studio e, come Istituto Geografico Polare, stiamo lavorando ad un numero speciale della rivista “Il Polo” dedicato alla conferenza e alle tematiche affrontate”.
Cosa vi portate a casa da questa esperienza sia a livello lavorativo che personale?
“Grazie al convegno siamo tornati in Nepal, dopo l’ultima esperienza in quella terra che risaliva al terremoto del 2015, quando lavorammo alla ricostruzione di un villaggio nepalese dedicato a Giuseppe Tucci. A livello professionale, ci portiamo a casa tanto lavoro da svolgere, che si concretizzerà con un numero speciale della rivista “Il Polo” e con una mostra fotografica dapprima in Nepal – ma il cui obiettivo è divenire itinerante – esplicativa delle ricerche effettuate.
A livello personale il Nepal ci ha insegnato molto, il contatto con le popolazioni locali e la ricerca in campo hinduista e sciamanico ci sta arricchendo grandemente, come è stata un’emozione seguire le orme di Tucci nel viaggio in Mustang, organizzato grazie alla disponibilità e al supporto logistico dei nepalesi”.
Marco Volpe
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