È allarme microplastiche nel Mar Artico, uno dei luoghi considerati più incontaminati del pianeta. Un team di ricercatori di Enea, Cnr e Sapienza ha scoperto frammenti di microplastiche in un piccolo crostaceo marino, l’anfipode Gammarus setosus, molto diffuso nelle isole Svalbard, nel mar Glaciale Artico.
Infinitamente piccolo, infinitamente grande
La notizia è riportata su Enea Inform@: l’allarme è tanto più grave perché quest’animale marino è alla base dell’alimentazione di diversi uccelli e pesci che vivono nell’area; inoltre, la maggior parte delle microplastiche studiate è costituita da polimeri sintetici di vernici e rivestimenti antivegetativi, impermeabilizzanti e anticorrosivi utilizzati sia nelle imbarcazioni che nelle attrezzature da pesca.
Sono autori della ricerca Valentina Iannilli (ENEA – Laboratorio Biodiversità e Servizi ecosistemici), Vittorio Pasquali (Sapienza Università di Roma), Andrea Setini (Sapienza Università di Roma) e Fabiana Corami (Istituto di scienze polari del Cnr di Venezia).
Le microplastiche sono state individuate tramite specifiche metodologie di colorazione e di spettroscopia infrarossa in campioni raccolti nella fascia costiera di fronte a Ny-Ålesund, oltre il 78º parallelo nord, nell’ambito delle attività della Stazione artica “Dirigibile Italia”, una base di ricerca italiana gestita dal CNR, che prende il nome dal dirigibile protagonista delle spedizioni del generale ed esploratore Umberto Nobile e del suo equipaggio.
L’invasione delle microplastiche
«Lo studio realizzato con CNR e Sapienza dimostra che le microplastiche hanno invaso anche le terre più a Nord del pianeta e sono in grado di penetrare ogni livello dell’ecosistema, con danni agli organismi e all’ambiente ancora poco compresi», sottolinea la ricercatrice ENEA Valentina Iannilli del Laboratorio Biodiversità e Servizi ecosistemici.
«Infatti le microplastiche scambiate per cibo possono arrivare all’apparato digerente degli animali, nei tessuti e poi nelle parti edibili dei pesci. Trattandosi di una specie molto abbondante (fino a 3000 individui al m2) il rischio di trasferimento delle microplastiche, nella catena alimentare umane è rilevante», prosegue.
All’interno di questo crostaceo di dimensioni intorno ai 3 cm, sono state rinvenute mediamente 72,5 particelle di microplastica tra i 3 e i 370 micrometri (milionesimi di metro), la maggior parte delle quali più piccole di un trentesimo di millimetro (30 micrometri).
«L’utilizzo di bio-indicatori come questo crostaceo è di grande importanza nel monitoraggio delle microplastiche, poiché può fornire un quadro molto più realistico della contaminazione e soprattutto indicare quanto questa contaminazione sia trasferita nella catena alimentare e possa potenzialmente arrivare anche a noi», conclude Iannilli.
Le analisi ambientali e i risultati scientifici
«La presenza delle microplastiche nell’ambiente è un problema diffuso a livello globale tanto quanto lo è l’utilizzo delle materie plastiche. Le caratteristiche dei polimeri plastici che ne hanno decretato il successo (ad esempio la malleabilità, la durata, la resistenza alla corrosione, la versatilità nell’impiego, ecc.) sono le stesse che ne determinano la pericolosità a livello ambientale», sottolinea Fabiana Corami.
Infatti, l’ubiquità e la persistenza delle materie plastiche rappresentano un pericolo per l’ambiente e per gli organismi. Sin dagli anni ’70 si parla di “plastic debris”, soprattutto per gli ambienti marini ed oceanici, e il termine “microplastiche” entra nel lessico comune solo nel 2004, grazie al Professor Richard Thompson.
Nel gennaio 2019 L’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (European Chemical Agency, ECHA) ha dato una definizione precisa delle microplastiche e ne ha definito il range dimensionale. Le microplastiche possono essere particelle, ma anche fibre, poiché molti tessuti sintetici, come il nylon o il poliestere, sono dei polimeri plastici.
«Diversi sono gli studi sulla presenza delle microplastiche, che sono state osservate negli oceani, nelle acque dolci, nei suoli, nei sedimenti, nelle acque potabili, e anche nelle aree polari. Nel lavoro pubblicato su Environmental Research, i ricercatori dell’Enea, dell’Università La Sapienza e dell’Istituto di Scienze Polari CNR ISP hanno osservato la presenza di microplastiche ingerite da Gammarus setosus (Amphipoda), un crostaceo diffuso nelle Isole Svalbard e in altre aree dell’Artico».
Le microplastiche ingerite dal G. setosus sono state studiate con tecniche specifiche di colorazione e tramite spettroscopia infrarossa (Micro-FTIR). Le particelle di plastica ritrovate all’interno degli organismi analizzati avevano dimensioni comprese tra i 3 e i 370 µm (milionesimi di metro).
Quanto sono piccole le microplastiche?
«E’ una domanda che ci pone spesso», spiega Corami. «Il range dimensionale, secondo l’ECHA, va da 1 µm (1 milionesimo di metro) a 5 mm. Le particelle e le fibre microplastiche possono possono essere scambiate come particelle di cibo ed essere ingerite da diverse specie animali, in primis da micro- e macro-invertebrati, come il G. setosus, in relazione alle loro dimensioni e in relazione alle dimensioni dell’apparato boccale degli organismi».
Per tutti gli invertebrati che si trovano alla base della rete trofica, l’apparato boccale permette di assumere particelle di dimensioni uguali o inferiori ai 100 µm (milionesimi di metro). Nel caso delle microplastiche, si tratta quindi delle particelle più piccole.
L’ingestione di queste particelle può provocare danni all’apparato intestinale, pseudo-sazietà e anche accumulo all’interno dell’organismo. In questo modo entrano nella rete trofica e possono arrivare nell’intestino di pesci ed uccelli che si nutrono direttamente di questi crostacei o che si nutrono di prede che mangiano questi crostacei.
Inoltre, le microplastiche possono essere vettori di diversi inquinanti inorganici e organici, ma possono anche essere vettori di virus e altri patogeni. Considerata l’abbondante popolazione di questi organismi, il rischio di trasferimento di microplastiche lungo la rete alimentare fino ad arrivare all’uomo è rilevante.
Organismi come il G. setosus possono essere quindi ottimi bioindicatori per studiare in maniera approfondita la reale contaminazione da microplastiche ed il rischio che rappresentano per l’ambiente e la salute umana. L’utilizzo di bioindicatori aiuterà non soltanto a comprendere il trasferimento delle microplastiche lungo la rete trofica, ma anche a valutare gli effetti tossici legati all’ingestione delle microplastiche e degli inquinanti adsorbiti su di esse.
Leonardo Parigi
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