Temperature estremamente miti e un cambiamento radicale nell’ambiente potrebbero modificare completamente il paesaggio e l’economia dell’Alaska.
Nel 2019 un agricoltore congolese è riuscito a far crescere, durante il mese di ottobre, una piantagione di dodo, una verdura a foglie tipica dell’Africa Sub-Sahariana e del Sud America. Tale notizia di apparente marginalità, in realtà dovrebbe stupire tutti, poiché, la coltura è avvenuta in un orto cittadino di Anchorage.
L’estate soffocante di quell’anno, con temperature anche di 32° – di gran lunga superiori ai consueti 25° – regalò alla famiglia congolese trasferita in Alaska un rigoglioso raccolto di dodo, così da non sentirsi troppo lontani da casa. Per quanto incredibile, questo evento non è isolato e testimonia l’inesorabile avanzata del surriscaldamento globale.
Come da tempo documentato, l’aumento di temperatura interessa l’emisfero Nord e l’Artico con una velocità maggiore rispetto ad altre aree della Terra. E se da un lato il cambiamento del clima viene visto e percepito come una minaccia, dall’altro non tarda ad arrivare chi ne prova a cogliere le opportunità adattandosi, come i cittadini dell’Alaska.
L’adattamento al cambiamento climatico è la capacità di saper trasformare una effettiva minaccia al benessere sociale ed economico in un’opportunità, senza però dimenticarsi delle risorse naturali e della stabilità dell’ecosistema.
“There’s no lemon so sour that you can’t make something resembling lemonade”, non è solo il mantra di alcune serie TV americane, ma un vero concetto di resilienza, di non cedere alle avversità. Ed è così che un evento potenzialmente catastrofico come l’aumento di temperatura viene colto dall’Alaska come possibilità di rendersi autosufficienti, emancipandosi dalle importazioni di cibo, attraverso la coltura dei terreni.
Perché se non esiste un limone così aspro da non farci una dissetante limonata, non esiste nemmeno un terreno così freddo da non poter essere coltivato. È questo che insegna la storia dell’agricoltura alaskana. L’Alaska vanta circa 365 milioni di acri ma solo 800.000 (circa 3.200 chilometri quadrati) sono coltivati, secondo le ultime stime che risalgono al 2017.
Nonostante sullo sviluppo agricolo dell’Alaska esistano pochi dati, tramite notizie più recenti è possibile desumere che la transizione climatica del “Last Frontier State” sta offrendo un rigoroso boom dell’agricoltura, un’occasione per trasformare quel 95% di dipendenza dalle importazioni di cibo in una percentuale molto più bassa, e segnare l’inizio di un’era di sicurezza alimentare, al riparo dai vertiginosi prezzi delle “groceries” dove un pezzo di pane può costare quasi 4 dollari.
L’assenza di permafrost per periodi sempre più lunghi sta consentendo alla University of Alaska Fairbanks di mettere al servizio dei cittadini un vero e proprio manuale di istruzioni per diventare contadini, nel quale addirittura vengono riportate le proiezioni degli incrementi di temperatura per zona con annessa tabella di verdure e frutti da poter coltivare.
Ad esempio, nel 2030 a Barrow i “growing degree days” i giorni che consentono lo sviluppo di una pianta, saranno 120 e garantiranno la coltivazione di grano, orzo, lenticchie e girasoli. Un po’ strano se si realizza che Barrow è l’insediamento più a nord del Paese. Siamo certi che l’agricoltura diretta sul suolo artico e subartico sia una strategia di resilienza vincente?
Quando si parla di Paesi artici, adattarsi al cambiamento climatico può essere più difficile che altrove. Rendere arabili i suoli polari o sub-polari molto sabbiosi e spesso acidi, può assicurare cibo a un’intera nazione ed emanciparla dai pesanti costi dell’import ma che ne resta dell’Artico e del clima stesso?
Coltivare dove il permafrost si scioglie più velocemente e più a lungo può essere pericoloso per diversi motivi, primo tra tutti, la degradazione di un serbatoio di gas nocivi e responsabili del riscaldamento globale, come il metano. Le radici delle piante che crescono sullo strato attivo del permafrost inoltre, “ravvivano” la materia organica del terreno incrementandone la capacità di emettere CO2.
Il coinvolgimento della degradazione del suolo artico nell’agricoltura è in fase di studio e non sono dunque presenti ancora dati certi sulla scarsa convenienza delle colture nelle aree prossime al Circolo Polare Artico. Ma quello che è certo è che l’agricoltura è il primo tra i settori economici per produzione di CO2 a causa della capacità umana di non saper attendere.
La natura ha il suo tempo ma non è un tempo utile agli approvvigionamenti umani che chiedono alla Terra sempre di più. Il ricorso a pesticidi e fertilizzanti non fa che perorare la causa del cambiamento climatico. L’uso di fertilizzanti a base di azoto, un toccasana per le coltivazioni esposte al freddo, in terreni così precari come quelli dell’Alaska o la spessa intensificazione dell’attività agricola, aumenterebbe la produzione di cibo, ma a che costo? adattarsi non dovrebbe sacrificare l’ambiente. Non può esserci resilienza senza tutela per gli ecosistemi.
Anna Chiara Iovane
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