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COP16 in corso a Cali: qual è la posta in gioco?

In queste settimane si sta svolgendo a Cali, Colombia, il sedicesimo summit globale per la protezione della biodiversità (COP16). Finanza e popolazioni indigene sono le due parole chiave di questo vertice (troppo) poco attenzionato. 

Ma la COP non era a novembre?

Il 21 ottobre ha preso il via a Cali, terza città più popolosa della Colombia, la sedicesima Conferenza delle Parti (COP16) sulla biodiversità, anche chiamata ‘COP biodiversità’ per distinguerla dalla più celebre ‘COP clima’ (che quest’anno si terrà a Baku, Azerbaijan, dall’11 novembre). Le Parti, in questo caso, sono i 196 paesi (Stati Uniti auto-esclusi) firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica (CBD). 

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Veduta aerea della città di Cali, Colombia.

Questi paesi si riuniscono periodicamente per coordinare obiettivi comuni, principi di azione e individuare fonti di finanziamento per il ripristino e la conservazione della biodiversità globale da cui dipendono, tra le varie cose, la stabilità delle nostre economie e società. 

Quest’anno a Cali il numero dei partecipanti si stima intorno ai 21.000, tra le delegazioni che saranno impegnate nelle negoziazioni ufficiali dei testi, numerosi rappresentanti del settore privato, e membri della comunità scientifica e della società civile. 

Così come per i negoziati sul clima, anche la CBD prevede che gli Stati si dotino di piani strategici (National Biodiversity Strategies and Action Plans, NBSAPs)  in cui definire come intendono lavorare a livello nazionale per contribuire agli obiettivi stabiliti in seno al forum. La COP di quest’anno rappresentava il tempo limite entro cui consegnare le versioni aggiornate degli NBSAPs, deadline che solo 35 paesi hanno rispettato

La biodiversità non è (solo) una questione per animalisti

Se il summit UN per il clima è ormai diventato celebre, il suo equivalente dedicato alla varietà biologica non è solito ricevere molta attenzione dal pubblico generale, e quest’anno non fa eccezione. Eppure i temi di cui si discuterà a Cali fino al 1 novembre sono tanto esistenziali quanto la gestione dell’emergenza climatica, nonché legati ad essa a doppio filo. 

La comunità scientifica lo ha sancito chiaramente: stiamo vivendo la sesta estinzione di massa e le cause di questa crisi portano il marchio ‘made by homo sapiens’. Come conseguenza delle attività umane, infatti, il tasso di estinzione è fino a 1000 volte più alto. Negli ultimi 50 anni, le popolazioni di 34,836 specie di vertebrati hanno registrato in media una riduzione del 73%. 

Le latitudini più estreme non sono immuni da questa crisi. Gli ecosistemi artici sono patrimonio di una grande varietà di specie la cui sopravvivenza è sempre più messa a repentaglio dalla distruzione degli habitat, dal sovrasfruttamento e naturalmente dai cambiamenti nel clima della regione. 

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La foto vincitrice del “Wildlife Photographer of the Year”. © Nima Sarikhani.

L’artico è la casa di animali particolarmente amati nell’immaginario popolare, come l’orso polare che non a caso è divenuto il simbolo, talvolta inflazionato e problematico, della lotta per la conservazione, o le volpi artiche. Non solo. Gli ecosistemi dei ghiacci artici ospitano un’incredibile varietà biologica a livello ‘micro’ che è a tutti gli effetti un patrimonio genetico in via di scioglimento.

Qualcuno potrebbe pensare che preoccuparsi di biodiversità sia un feticcio per amanti degli animali e biologi. Sbaglierebbe. Il collasso dei sistemi di produzione alimentare, il rischio di zoonosi (malattie infettive trasmesse dagli animali all’uomo), la vulnerabilità degli ecosistemi che spesso innesca e amplifica disastri naturali come alluvioni e incendi. Tutto questo, e molto altro, ha a che vedere con la biodiversità che è alla base della salute del pianeta e al centro dei negoziati in corso a Cali.  

È l’ora dei conti

COP16 è diretta erede dello storico risultato raggiunto in Canada nel 2022 con l’accordo sul Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF). Questo accordo contiene 4 obiettivi principali e 23 target, ma l’unico punto che ha già raggiunto una certa popolarità è quello del ‘30×30’, ovvero l’ambizione di proteggere il 30% delle aree terrestri e marine del pianeta entro il 2030 e ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati (tradotta dall’UE nella sua Strategia per la Biodiversità al 2030, carismaticamente sottotitolata ‘Riportiamo la natura nelle nostre vite’). 

Come sempre accade dopo il raggiungimento di un accordo, ora è il tempo dell’implementazione, della pulizia dei dettagli e soprattutto di rispondere all’eternamente scomoda domanda ‘Sì, ma chi paga?’

Uno dei dossiers più caldi di COP16, infatti, è quello sulla finanza per la biodiversità. Sempre 30 sono i miliardi di dollari che i paesi industrializzati si sono impegnati a devolvere per finanziare la protezione della biodiversità nei paesi in via di sviluppo attraverso il Global Biodiversity Framework Fund (GBFF). Ad oggi sono stati allocati fondi solo da sette paesi per un totale di $244 milioni. Superata la metà del summit, il testo relativo al tema della finanza contiene ben 1965 parentesi quadre, che in gergo COP significa sezioni su cui non si è ancora d’accordo, e 45 opzioni alternative

In campo finanziario, un importante argomento nel dibattito è la riforma dei “sussidi dannosi”, misura fortemente supportata tra gli altri dalla Norvegia e spesso contrapposta all’idea (divisiva) di ricorrere agli stessi meccanismi di offset e generazione di crediti ormai diffusi nel mondo del carbonio. Si discute inoltre di come evitare il rischio di doppio-conteggio che gonfierebbe artificialmente i contributi reali delle economie più sviluppate.

https://twitter.com/susanamuhamad/status/1848377722659090536

Il primato delle popolazioni indigene

In questa COP sudamericana grande attenzione è data al ruolo delle popolazioni indigene nella difesa degli ecosistemi, sia in termini proattivi, in qualità di custodi di conoscenze preziose, che in quanto parti lese, dal momento che il degrado degli ecosistemi impatta direttamente i loro tradizionali stili di vita

In tutto il mondo, i popoli indigeni sono in prima linea per la difesa della biodiversità. Tuttavia, in molti paesi, regione artica inclusa, queste popolazioni si scontrano con il mancato riconoscimento dei propri diritti sui territori che abitano da tempo immemore e che vedono continuamente minacciati da progetti estrattivi. Allo stesso tempo, si stima che i popoli indigeni e delle comunità locali siano stati beneficiari di appena l’1% dei flussi finanziari allocati globalmente per la difesa della biodiversità. 

Nella sua nuova strategia nazionale, il Canada si è soffermato ampiamente su questo punto in agenda per COP16: “Non c’è modo di raggiungere i nostri obiettivi per il 2030 senza la competenza e la leadership delle Prime Nazioni, degli Inuit e della Nazione Métis, e il cambiamento trasformativo deve essere incentrato su misure coraggiose e guidate dai popoli indigeni.”

Due anni fa nella plenaria di chiusura di COP15, oltre all’Accordo di Kunming-Montreal, le parti approvarono anche un accordo per “rivalutare ed espandere il ruolo dei popoli indigeni e delle comunità locali (IPSC) e delle conoscenze tradizionali nel processo della CBD”.  E uno dei punti di domanda pendenti sui negoziati in corso è proprio se queste parole prenderanno una forma politica concreta. 

Annalisa Gozzi

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Annalisa Gozzi
the authorAnnalisa Gozzi
Sono una studentessa del Master in Environmental Policy all’Università Sciences Po di Parigi. Sono appassionata di comunicazione e cerco di rendere il tema del cambiamento climatico accessibile nella sua complessità.

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