Lo scioglimento del permafrost modifica il sottosuolo e innesca una serie di conseguenze: il carbonio ne è protagonista.
Il permafrost e “l’effetto farfalla”
Sentiamo spesso parlare di “effetto farfalla”, concetto nato nel mondo matematico ma usato ormai nel linguaggio di tutti i giorni: si tratta dell’idea per cui il semplice spostamento d’aria dato dal battito delle ali di una farfalla possa creare una serie di eventi concatenati e sfocianti in un fenomeno estremo, come un uragano. Tale immagine risulta particolarmente centrale nel dialogo sul cambiamento climatico: come mai?
Il legame tra ghiaccio e acqua liquida può sembrare banale, ma nasconde in realtà un sistema dall’equilibrio sottile, in cui piccole variazioni possono portare a cambiamenti imponenti.
Si definisce “permafrost” qualsiasi materiale (roccia, sedimento, suolo) che rimane a temperatura inferiore di 0°C per almeno 2 anni consecutivi.
(Siemon William Muller, 1945)
Attualmente il permafrost copre circa 22.8 milioni di chilometri quadrati nell’emisfero boreale, ma tale numero è destinato a diminuire con il progredire degli effetti del cambiamento climatico.
Il permafrost è caratterizzato da uno “strato attivo” più superficiale, soggetto al congelamento e scongelamento annuo.
Le profondità raggiunte dal “ghiaccio perenne” sono più impressionanti di quanto si possa pensare nell’immaginario comune: si stima che in Antartide e Siberia possa giungere oltre 1200m, mentre la media sull’arco alpino è tra i 50 e 120m.
La scomparsa di laghi nelle zone artiche è un importante segnale delle modifiche ambientali che sono in atto: si tratta del drenaggio delle acque che avviene in modo sempre più ampio e profondo, con lo sviluppo di canali perpendicolari ai talik, strati di terreno decongelati presenti nel permafrost.
Il suolo sottostante è dunque soggetto a graduale abbassamento, nell’area posta inferiormente al lago, fino a un punto in cui il permafrost risulta ampiamente penetrato e l’acqua avrà dunque modo di contribuire al circolo sotterraneo.
Ci sono oggi evidenze che suggeriscono che l’acqua di superficie nelle regioni con permafrost sia in decrescita: con l’aumento del flusso dato da precipitazioni e dal riscaldamento, una frazione sempre maggiore del flusso fluviale annuale potrebbe venire dal sottosuolo, attraverso il permafrost degradante.
Acqua e suolo
L’acqua che scorre nel suolo, inoltre, prende in carico ciò che incontra: ciottoli, argilla, limo, ma anche particolato di vario tipo. A causa del fenomeno descritto, che favorisce il passaggio nel sottosuolo, i materiali trasportati saranno diversi rispetto a quelli associati alle precipitazioni. Questo porterà inevitabilmente ad un cambiamento nella chimica dell’acqua: la natura dovrà dunque cercare ancora un nuovo equilibrio, modificando le condizioni globali degli ambienti circostanti.
Basti pensare che rifiuti provenienti dalla Siberia sono trovati in grandissime quantità nelle isole Svalbard norvegesi: i sistemi sono molto più vicini e legati di quanto le distanze fra i luoghi interessati non ci portino a pensare.
Infine le particelle organiche protagoniste dei suoli, caratterizzate dalla presenza di carbonio, potrebbero risultare “degassate” nell’atmosfera al momento del raggiungimento delle acque costiere. Tale evento contribuirebbe all’avanzamento del riscaldamento climatico, motivo per cui sta iniziando ad essere oggetto di studio.
Cosa possiamo aspettarci?
Secondo recenti studi, l’aumento delle precipitazioni inciderà molto nelle aree dalle latitudini più estreme del bacino artico. Con la scomparsa della banchisa, conseguenza del riscaldamento, i nuovi modelli suggeriscono che l’oceano artico nutrirà maggiormente l’atmosfera con acqua che, evaporando, inciderà anche sulle aree adiacenti cadendo come precipitazione.
È stato inoltre constatato che la percentuale di carbonio nel suolo delle aree più a nord dell’artico sono più alte di quanto non siano rilevate a sud. Con il “thawing” del permafrost queste regioni vedranno un’ulteriore incremento nella presenza di carbonio nelle acque.
Si sta già individuando tale aumento nei fiumi artici: il carbonio datato risulta essere rimasto congelato per migliaia di anni.
L’aumento della presenza di carbonio nelle acque potrebbe quindi portare a più contaminanti e un più alto rischio batteriologico, oltre che risultare uno stimolo all’avanzamento del riscaldamento climatico.
Elena Ciavarelli